BRUNETTO, DANTE E L’ISLAM

Document Type : Original Article

Author

Department of European Languages, Faculty of Foreign languages, University of Jordan

Abstract

Il presente articolo, presentato alla Conferenza dell'università Badr (il Cairo) in occasione del settimo centenario dalla morte di Dante Alighieri, ha come obiettivo quello di focalizzare l’attenzione sulla dimensione culturale e politica negli studi sull’influenza islamica su Brunetto Latini e Dante Alighieri. Per trattare la questione della tensione e, più generalmente, dell’ansia di carattere politico e culturale nell’ambito degli studi concerneti il rapporto tra il Sommo poeta e l’Islam, occorre tornare alla relazione che legava il poeta fiorentino con il suo maestro Brunetto Latini. Benché si sappia poco dei dettagli sulla sua ambasceria presso la corte di Alfonso X di Castiglia, il contatto di Brunetto Latini con la conoscenza arabo-islamica è quasi evidente. Dante Alighieri non differisce tanto da Brunetto Latini per quanto concerne la posizione critica sulla cultura islamica; l’articolo infatti vuole dimostrare che Dante Alighieri rappresenta una continuazione di tale posizione, presa dagli antecedenti e trasmessa ai successori.

Keywords

Main Subjects


Per trattare la questione della tensione e, più generalmente, dell’ansia di carattere politico nell’ambito degli studi concerneti il rapporto tra il Sommo poeta e l’Islam, occorre tornare alla relazione che legava il poeta fiorentino con il suo maestro Brunetto Latini. Benché si sappia poco dei dettagli sulla sua ambasceria presso la corte di Alfonso X di Castiglia, il contatto di Brunetto Latini con la conoscenza arabo-islamica è quasi evidente. D’altronde, il critico italiano Alessandro D’Ancona conferma l’esistenza delle fonti arabo-islamiche nell’opera fondamentale di Brunetto, il Tesoro, che contiene, tra le altre cose, la storia del profeta dell’Islam, Muhammad[1]. Per di più, gli interessi dell’Ambasciatore guelfo comprendevano ovviamente la politica. Ed anche in questo caso, egli fu debitore alla cultura filosofica islamica, quindi non solo a Cicerone, ma anche al Farabi[2].

Ma il punto cardine del rapporto tra Brunetto e l’Islam rimane la sua menzione del profeta dell’Islam. Si tratta di una raccolta di favole che giravano nell’occidente medievale sulla figura di Muhammad. Tali favole non sembrano del tutto compatibili tra di loro, anche se hanno in comune vari punti. A partire dallo stesso nome di Muhammad, pare che ci siano diverse varianti, ma Brunetto comunque predilige quella più celebre, ossia Maometto, riferendosi poco dopo ad un’altra variante, Pelagio:

Poi li mise in errore Machumitto.

Ò udito che fue monaco e cardinale,

Che lui lasciò Eradio che dovesse predicare.

Era di vita et di spirito tanto,

Che Cristiani et Pagani l'adoravano per santo.

Et Pelagio era il suo nome;

Della casa della Colonna dì Borna fue sua natione.[3]  

 

La parola Maometto, o “Machumitto”, sembra derivare dal “mal commetto”[4], e quindi già dall’inizio si possono denotare le connotazioni negative che girano intorno alla sua persona, alla sua storia e persino ai suoi intenti. I versi di cui sopra appartengono al primo volgarizzamento ed alludono ad una leggenda popolare che vuole che Muhammad fosse un monaco e cardinale adorato – erroneamente – dai cristiani e chiamato Pelagio. Ma nel secondo volgarizzamento che risale ai primi del Trecento, tale Pelagio aspirava addirittura al papato:

Pelagio adomandò a' chardinali il papato,

E perchè lo domandò, nolli fue dato:

Che l'averebbe avuto,

Sì era a' chardinali il fatto suo piaciuto;

E perciò, sicome gran dottore,

Rimase tutta quella gente in errore,

E avevavi adoperato tanto

Tutta la gente l'adorava per santo.

Egli era in ongni scientia perfetto,

E inpuose[n]li nome Malchonmetto.[5]

Ma siccome a Muhammad viene negato il papato, egli per dispetto va in Arabia e costituisce quello che sarà ricordato nella forma mentis europea come eresia del cristianesimo.

Nel suo commento al Tesoro, D’Ancona non solo affronta l’anteriorità cristiana di Muhammad e la leggenda sopra la sua morte, ma riesce anche a confrontare, ed in modo piuttosto equilibrato, le notizie medievali occidentali su Muhammad con quelle dei commentatori e storici arabi, un po’ per amor della verità storica che interessava ormai i filologi dell’epoca, un po’ per dare ordine a quella gamma di confusione che affliggeva il pensiero mediavale sull’Islam in generale. Esaminando le grandi narrazioni e tentando di ricapitolare, D’Ancona giunge ad una conclusione che riguarda principalmente due elementi: l’Islam e il suo fondatore. Ma all’immagine dell’Islam come eresia e alla figura di Muhammad come strumento di scisma, bisogna aggiungere un’altra tematica, quella del maestro di Muhammad.

Anche qui le fonti differiscono tra di loro ed i nomi, di conseguenza, variano: il maestro potrebbe essere un monaco o un patriarca, come potrebbe essere un eretico o un nestoriano, ma tutti i possibili maestri sono cristiani, talvolta addirittura europei[6], e i nomi possono essere Sergio, Solio Grosio e addirittura Niccolò. Un’ulteriore prova della cristianità dell’Islam. E quindi, nell’epoca di Brunetto, e per dirla con D’Ancona, o Muhammad era cristiano o ammaestrato da cristiano[7]. E non solo: spesso in queste leggende si menziona Muhammad assieme al suo maestro, talvolta fino ad un livello di immedesimazione, soprattutto durante il processo della fondazione di questa eresia; e come se non bastasse, una buona parte delle leggende, compresa quella contenuta nel Tesoro di Brunetto, fa partire tutto dal cuore del mondo cristiano, cioè da Roma.

Ad ogni modo, l’importanza di Brunetto è data dal fatto che egli rappresenti una possibile mediazione tra Dante e le fonti islamiche. Ma non solo. Brunetto è tra i contemporanei di Dante che personificano il valore ambivalente nei confronti della sponda sud del Mediterraneo. E anche in questo fu maestro di Dante, oltre ad essere ovviamente un predecessore della Commedia (Brunetto nel Tesoretto si perde nella “selva diversa”, e Dante si smarrisce nella “selva selvaggia”, entrambi intraprendono un viaggio e lo raccontano, ma in questo viaggio Brunetto viene guidato da Ovidio, Dante invece da Virgilio). Ciononostante, Dante non esita a condannare all’Inferno l’amatissimo Brunetto per sodomia. Una condanna che può lasciar pensare, all“irrigidamento conservatore della sua morale” come afferma Massimo Campanini[8]. Mentre non si mette in dubbio la morale dantesca, non si potrebbe trascurare l’esistenza di alcune osservazioni riguardo a quello che è passato nella tradizione degli studi danteschi come “l’incontro affettuoso” tra l’allievo e il maestro. Innanzittutto, occorre provare a togliere “affettuoso” e cercare di sostituirlo con “tensione” mischiata, all’inizio, con lo stupore che avvolge i due poeti nel momento in cui si riconoscono; Brunetto urla: “Qual maraviglia!” E Dante, a sua volta, risponde, con tono ancora più sbalordito: "Siete voi qui, ser Brunetto?". (Inferno, XV, vv. 24, 30).

Peché tensione? Nonostante il rispetto che Dante riserva a Brunetto e che emerge nell’uso del “voi” e del “ser”, l’autore della Commedia si cura prima di dipingere un quadro singolare che illustra Dante in una posizione superiore rispetto a Brunetto durante il loro colloquio, come prova dell’intento di Dante di rovesciare la prospettiva gerarchica tra il maestro e il discepolo[9]. Ma la tensione non è qui; è invece da trovarsi in quel “qui”, la parola chiave che mette in risalto lo stupore di Dante sulla colpa di Brunetto. Sale la tensione quando Brunetto chiede il permesso a Dante di parlare, anche un po’, e Dante glielo concede. Sarebbe interessante esaminare il colloquio tra i due amici, ma è ancora più interessante prendere in considerazione altresì i silenzi: il silenzio quasi assoluto di virgilio, la mancanza della risposta alla domanda di Brunetto riguardo a Virgilio, l’assenza della argomentazione sulla colpa della sodomia. Sembrano delle lacune; non a caso il Canto in questione è uno tra i più brevi dell’Inferno.

L’argomentazione diventa ancora più interssante per non dire ansiosamente più complicata se alle couplé (dire – non dire) si aggiunge un’altra couplé concernente il dire stesso suddiviso tra l’apparenza del Canto e la realtà nascosta tra le righe. Ma ciò che non vorrebbe dire Dante lo dicono i commentatori o almeno cercano di indovinarlo. L’assenza totale della questione della colpa della sodomia nel Canto ha condotto diversi commentatori a mettere in dubbio la sodomia di Brunetto affermando che Dante lo aveva inserito nell’Inferno per altri motivi, dato che Brunetto stesso tra l’altro condanna la sodomia nel Tesoro e nel Tesoretto. Alcuni quindi sostengono che Brunetto aveva commesso un peccato intellettuale, altri per le sue idee politiche, altri ancora vedono che il peccato di Brunetto era quello di scrivere il Tesoro in francese, sottolineando la similutidine tra la sterilità di chi pratica la sodomia e quella di chi adopera un linguaggio straniero come idioma per la sua creatività letteraria.[10]   

Poi in questo e nel mezzo del colloquio tra Dante e Brunetto, il primo esprime i suoi sentimenti nei confronti del secondo dicendo:

"Se fosse tutto pieno il mio dimando",
rispuos’io lui, "voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna (vv. 79-83)

Lungi da quella paternità espressa esplicitamente da Dante e dalle interpretazioni eterogenee date dai commentatori (per non parlare di coloro che mettono in discussione la sincerità stessa dei sentimenti di Dante), ci sarebbe da chiedersi se l’ansia dantesca riguardo alla paternità, nel senso “edipico” del termine, non sia veramente la colpa reale del maestro. In tal caso, la condanna non sarebbe solo un tentativo mimetico di Brunetto, ma anche un intento implicito di superamento dell’opera brunettiana.

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Dante e l’Islam

Sempre secondo D’Ancona, Dante non differisce tanto da Brunetto per quanto concerne la posizione sul profeta Muhammad, anzi egli rappresenta una continuazione di tale posizione, presa dagli antecedenti e trasmessa ai successori.

Ma il fatto che Dante metta Saladino, Averroé e Avicenna nel prestigioso Limbo (Inferno IV) assieme ad altri grandi personaggi della storia occidentale quali Aristotele, Omero e lo stesso Virgilio, guida del poeta nel suo viaggio, dà la prova che la posizione anti-maomettiana di Dante non è da generalizzare a tutte le componenti della civiltà arabo-islamica in modo assoluto. Ci sarebbe da chiedersi che rapporto aveva Dante con queste componenti. Sicuramente si tratta di un rapporto ambivalente.

Stando a Francesco Gabrieli e a quanto scrive sotto la voce “Islam” nella Enciclopedia Dantesca, Dante non rende omaggio ad Averroé ed Avicenna in quanto islamici, c’è un motivo più convincente: “ma questo è un omaggio non già alla fede nemica, bensì a quella universalità del sapere cui qui Dante s'inchina” [11]. E cosa dire di Saladino? Dante s’inchina anche davanti a lui? L’orientalista non ci dice nulla. E sotto la voce “Arabi” nella stessa Encicolpedia e dello stesso scrittore, traspare un’altra ambivalenza dantesca: da una parte per Dante, gli “Arabi”, parola che compare una volta sola nella Commedia (Paradiso VI, 49), sono “presenti nella sua cultura con la loro altissima opera di pensiero e di scientifica ricerca”[12]; dall’altra, gli Arabi ed i Saraceni in generale, per il poeta fiorentino, sono sinonimo di barbari[13]. Quanto invece al rapporto tra Dante e la cultura araba, Gabrieli sostiene “con tranquilla coscienza” che Dante di tutta la letteratura araba “dotta” non seppe nulla (inclusi al-Maari ed Ibn Arabi). L’orientalista italiano, tuttavia, esclude cautamente Il libro della Scala essendo letteratura popolare, ma sottolinea la conoscenza di Dante della produzione scientifica e filosofica araba[14], ed in modo particolare le opere di Avicenna e Averroè, Algazali, ecc.

Dante dedica una particolare attenzione all’astronomia araba. Egli infatti nel Convivio cita direttamente l’opera dell’astronomo Alfragano che si fonda su basi tolemaiche (Convivio, II V 16); Albumasar (Convivio II VIII 22); e l’astronomo andaluso Alpetragio (Convivio, III II 5). Quanto invece alla filosofia, Dante ricorda nel Convivio Algazel assieme a Plato ed Avicenna (II XIII 5), e quest’ultimo, oltre ad essere ricordato come si è visto nel primo cerchio dell’Inferno, viene anche menzionato nel Convivio accanto ad altri autori (Convivio II XIII 5; III XIV 5; IV XXI 2) quali Aristotele e Tolomeo. Non pare certo che Dante conoscesse l’opera di Avicenna direttamente, bensì attraverso Alberto Magno e Tommaso d’Aquino[15].

Infine, abbiamo Averroè, oppure il “Commentatore”, che occupa decisamente uno spazio più ampio nel pensiero dantesco. Nel Convivio (IV XIII 8) e nella Monarchia (I III 9) viene ricordato il suo commento al De Anima di Aristotele. Nella Commedia, la presenza di Averroè è circoscritta da un giudizio dantesco ambivalente: da una parte lo troviamo in una prestigiosa posizione, ossia nel mezzo della “filosofica famiglia”, dall’altra, Dante nel Canto XXV contesta la tesi dell’intelletto separato:

sì che per sua dottrina fé disgiunto

da l'anima il possibile intelletto, 

perché da lui non vide organo assunto (vv. 64-66)

 

Dante quindi assolve l’averroismo, nonostante l’avversione di molti contemporanei a tale movimento e nonostante le condanne parigine del 1277 che toccavano tra le altre cose anche i seguaci dell’averroismo. Ne è prova il Sigieri da Barbante, noto filosofo averroista, che Dante colloca nel Paradiso accanto a Tommaso d’Aquino. Tale posizione di Dante nei riguardi dell’averroismo è interessante se vista in relazione alla filosofia dei contemporanei, tra cui Tommaso che etichetta il cordovano philosofaie peripateticae depravator e Duns Scoto che lo chiama maledictus, mentre lo stesso poeta lo considera “più savio” di lui (Purgatorio XXV, 63)[16]; non meno interessante se consideriamo come l’averroismo possa diventare un metro per giudicare l’intera cultura arabo-islamica.

È il caso di Francesco Petrarca che, in una lettera inviata all’amico padovano Giovanni Dondi, lancia un giudizio molto severo nei confronti della maggior parte delle componenti della cultura araba: «Arabes vero quales medici tu scis. Quales autem poetae, scio ego: nihil blandius, nihil mollius, nihil enervatius, nihil denique turpius. Et quid multa, vix mihi persuadebitur ab Arabia posse aliquid boni esse». (Senili, XII 2). Petrarca sostanzialmente nega tutto quel che viene dagli arabi: la scienza, la medicina, la filosofia e soprattutto quel campo su cui egli può giudicare, ossia quello letterario. Quel che ha stupito gli orientalisti italiani, Enrico Cerulli e Francesco Gabrieli in primis, riguarda infatti la conoscenza petrarchesca della poesia araba, e come poteva avere questa conoscenza[17] ed addirittura se l’ha conosciuta o meno. E comunque, Cerulli, quasi a giustificare la posizione anti-araba del “poeta sommo”, vede che l’intento è da trovarsi nel motivo umanistico europeo che doveva difendersi dalla tradizione della filosofia e scienza araba che tentava di unirsi alla fede cristiana ispiratrice del Poeta[18]. Il nucleo di questa tradizione, però, non si poteva trovare nel campo letterario, bensì in quello filosofico ed in modo particolare nell’averroismo che esaltava l’unicità dell’anima intellettiva e fioriva nell’ambito padovano. In una lettera inviata ad Antonio Albanzani, Petrarca scrive: “Christi autem inimico esto hostis Averroim” (Senili, XIII 5), ed in un’altra con i toni più alti a Ludovico Marsili, in cui il poeta lo invita a scrivere un trattato “contra canem illum rabidum Averroim” (Senili, XV 2). Ed infine, abbiamo una testimonianza personale del Petrarca che racconta la storia di una lite con un averroista all’amico Boccaccio (Senili, V 2). Quest’ultimo, però, non pare condivida la posizione petrarchesca riguardo alla dicotomia occidente cristiano ed oriente islamico. Basti pensare all’apertura verso est nelle tematiche, ambientazioni e personaggi del Decameron, opera in cui spicca, tra gli altri, un saggio Saladino (Decameron, I, 3; X, 9) in narrazioni che richiamano la tolleranza religiosa e il libero scambio del sapere e delle merci.

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Dimensione politica

Questa differenza di opinione tra Petrarca e Boccaccio riguardo alla posizione dicotomica tra occidente ed oriente durerà nei secoli successivi in campo culturale ed in quello letterario[19]. Negli studi danteschi, invece, il rapporto tra la Commedia e il mondo islamico non si poneva, tranne per qualche studio di secondaria importanza, finché non uscì nel 1919 l’opera di Miguel Asìn Palacios che scosse, come prevedeva già l’arabista spagnolo, l’ambiente accademico e gli specialisti degli studi medievali, italiani in primis. Non fu meno attenta alla ricezione dell’opera, e di conseguenza all’accettazione o meno da parte del pubblico mondiale, anche l’introduzione del Duke of Alba alla versione inglese del 1925. All’inizio Palacios esprime la propria comprensione del disagio che tale pubblicazione possa suscitare tra i dantisti italiani, e poi rassicura che nei cinque anni trascorsi, il suo connazionale è riuscito ad affrontare corraggiosamente le critiche, ribaltando la bilancia della tesi “a suo favore”, concludendo, infine, che tale vittoria ed il consiglio datogli da Lord Balfour, lo hanno indotto a pubblicare il libro e presentarlo ai popoli anglofoni[20].

Dalle due introduzioni emerge insomma una gara tutta europea, in modo particolare italo-spagnola, in cui gli arabi rimangono naturalmente un mero e lontano oggetto di studio. Ciò è dimostrato dalle parole di Palacios che, nel tentativo di alleviare l’ansia emersa da questa gara, sostiene che l’influenza culturale non è mai stata esclusiva di una nazione, e quindi è naturale che più nazioni possano rivendicare il diritto di patecipare alla gloria di un’opera maestosa come la Divina Commedia. Oltre all’Italia, vi è ovviamente la Spagna:

“for if not merely the neo-Platonic metaphysics of the Cordovan Ibn Masarra and the Murcian Ibn Arabi, but the allegorical form in which the latter cast his Ascension may have exercised an influence as models, as they certainly existed as forerunners, of the most sublime part of the Divine Comedy, Dante’s conception of Paradise, then Spain may be entitled to claim for her Moslem thinkers no slight share in the worldwide fame enjoyed by the immortal work of Dante 19 Alighieri. And again, the absorbing influence exercised by the latter over our allegorical poets, from the end of the fourteenth to the sixteenth century, from Villena to Garcilaso, not to mention Francisco Imperial, Santillana, Mena and Padilla, would be balanced in a measure by the antecedent influence of our Moslem mystics in the complex genesis of the Divine Comedy (our italics)[21].

Ciò spiega l’uso rigoroso di Palacios dell’aggettivo “cordovano” o, di più, “murciano” che accompagna puntualmente Ibn Arabi, e l’uso di “Spagna”[22] anziché “Andalusia”, ecc. Ne deriva che il sentimento nazionalistico riferito ai dantisti italiani è applicabile altresì al Duke of Alba e a Palacios stesso. Non si dimentichi che il libro, uscito con il sostegno della “Direccion general de Libro y della Biblioteca” del Misintero spagnolo della cultura, potrebbe essere considerato, come sostiene Stefano Rapisarda, “come rappresentativo di una cultura nazionale, anzi come uno dei prodotti più alti della cultura umanistica spagnola”[23]. Aggiungiamo a questo duello spagnolo italiano i lavori del 1949 usciti contemporaneamente all’indomani del ritrovamento dei manoscritti Livre de l'Eschiele Mahomet e il Liber Scalae Machometi e pubblicati appunto in Italia ad opera di Enrico Cerulli ed in Spagna ad opera di J. Muñoz Sendino. Non è un caso che Cerulli aggiunga l’aggettivo “spagnolo” affiancandolo all’arabo nel titolo del suo lavoro: Libro Della Scala e la Questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia.

E’ evidente che accanto al lavoro assiduo di dantisti ed orienalisti riguardo alle fonti islamiche nella Divina Commedia nel periodo del dopoguerra, è emerso anche un dibattito di carattere ideologico-politico caratterizzante il tentativo di ricostuire i grandi sistemi culturali mondiali: l’Europa e la sua unicità in frantumi (il caso di Leo Spitzer e Ernest Kantorowicz)[24], il rinforzo del rapporto tra occidente ed oriente e in modo particolare la ricostruzione di un’unità mediterranea. Quest’ultimo atteggiamento lo vediamo esplicitamente nel Cerulli:

“A noi preme più generalmente il grande fenomeno storico della fioritura degli scambi intellettuali, tra il mondo islamico e quello dell’Europa d’allora ed il rinnovamento del pensiero occidentale che ne fu la conseguenza, segnando profondamente la civiltà umana in quell’ambiente dell’unità culturale dei Paesi Mediterranei che è stata, ogni volta che fu realizzata, madre di progresso umano”[25].

Non dovrebbero sorprendere queste parole di Cerulli, poiché oltre al suo impegno scientifico da studioso di lingue semitiche, egli era anche un diplomatico ed inviato coloniale nel Corno d’Africa. In questo senso Cerulli allarga la lista dei politici coinvolti, direttamente o indirettamente, nella storia dell’influenza islamica in Dante: da Brunetto Latini, ambasciatore guelfo presso la corte toledana, al Duke of Alba, ambasciatore di Spagna a Londra, che non nasconde i suoi interessi nella diffusione dell’opera di Palacios nel mondo anglosassone e su richiesta di un altro politico, questa volta di fama internazionale e del calibro di Arthur Balfour, per non parlare della funzione politico-culturale ricoperta dallo stesso Palacios, il quale dirigeva la Real Academia de la Lengua Española e ricopriva la carica di Procurador en Cortes. Non a caso il suo libro su Dante e l’Islam venne presentato come lettura nel 26 gennaio 1919 alla Real Academia Española in occasione del suo ricevimento a questo “solenne e formale” consesso[26].

L’amalgama di cosiderazioni teorico politiche ci potrebbe disviare momentaneamente verso il terreno di Cultural Studies e più precisamente verso l’opera celebre di Edward Said, Orientalismo (1978), in cui l’autore accenna qualche nota sul rapporto tra Dante e l’Islam, ed i particolar modo, l’episodio dedicato a Muhammad nell’Inferno XXVIII, inserendo il poeta fiorentino in quella lunga lista di autori europei che adottano una visione “orientalistica” atta a posizionare l’Islam in un’alterità esotica senza tempo rispetto all’occidente cristiano[27]. Il contributo portato da Said qui non riguarda certamente il rapporto tra Dante e l’Islam, né tanto meno eventuali influenze dell’ultimo sul primo (non ha nemmeno preso in considerazione né Palacios né l’orientalismo spagnolo); il suo contributo invece è quello di aver messo in dubbio le opere canoniche nel loro tentativo di rappresentare l’oriente[28].

Non a caso, nei due decenni successivi all’uscita di Orientalismo, e verso la metà degli anni Novanta (il periodo in cui è uscita finalmente la traduzione italiana del libro di Asìn Palacios), la polemica ha preso una nuova dimensione, ossia quello che che Rapisarda chiama “political correctness nella letteratura”[29]. Occorre ricordare che in questi anni il lavoro di Maria Corti sulla questione dell’influsso arabo nell’opera dantesca stava inaugurando una nuova fase di dibattito a livello italiano ed estero. Ma a differenza della prima fase di polemica, rappresentata dallo spagnolo Asìn Palacios, e la seconda dallo studioso e politico Cerulli, ecco che arriva una studiosa auterovole in piena epoca “multiculturale” che accetta l’influsso arabo. L’accettazione, però, non ha fatto altro che aumentare i dubbi ed innalzare l’ansia accademico-culturale tra i giovani studiosi[30]. Si auspica che questo vivo dibattito tra i sostenitori della Corti ed i suoi oppositori porti alla fine ad una conclusione defintiva che vede nella cultura islamica medievale e quella cristiana europea due mondi che, sì, s’incontravano e si scontravano in ambito filosofico e letterario, ma per certi versi ruotavano sulla stessa orbita. 

 

 

 

 
[1] Vedi Alessandro D’Ancona, Il Tesoro di Brunetto Latini versificato, Roma 1888.
[2] Vedi Maria Luisa Ardizzone, Reading as the Angels Read: Speculation and Politics in Dante's 'Banquet' (Toronto, University of Toronto Press, 2016) p. 275.
[3] Il Tesoro di Brunetto Latini versificato, p. 176.
[4] Benvenuto da Imola (1330-1388), uno dei primi commentatori di Dante, ci fornisce il significato: “Dicitur enim Jfachometus, quasi malus comitus, idest gubemator navis, idest ecclesiae Dei, quam deduxit ad naufragium, quia nec antea nec postea fuit muior ruina in ecclesia Dei”. Ibid.
[5] Ibid.
[6] Nella sua opera, D’Ancona aggiunge giustamente i nomi di Bahira e Waraka, citati dalle fonti islamiche.
[7] Ibid. p. 221
[8] Massimo Campanini, Dante e l'Islam: L'empireo delle luci, (Roma, Edizioni Studium, 2019).  
[9] Per questo rovescimento vedi tra gli altri: Tiziano Zanato, “Su “Inferno” XV e dintorni”, Rivista di letteratura italiana, VI (1988), pp. 185-246; Heather Webb, Dante’s Person. An Ethics of the Transhuman, Oxford University Press, Oxford, 2016, p. 133; Selene Sarteschi, “Inferno XV: l’incontro fra Dante e Brunetto, Rassegna europea di letteratura italiana, 29/30 (2007), pp. 33-59.
[10] Per il peccato intellettuale vedi contributo prezioso di André Pézard, Dante sous la pluie de feu, Paris, Vrin 1950; per il peccato delle sue idee politiche vedi Elio Costa, “From locus amoris to Infernal Pentecost: the Sin of Brunetto Latini”, Quaderni d’Italianistica X, 1-2 (1989): pp. 109-132; per il peccato di aver usato il francese vedi l’articolo citato di Sarteschi, “Inferno XV ...”. Mario De Rosa, invece, vede Brunetto peccatore agli occhi di Dante in quanto simboleggia un’intera generazione: “[Dante] ha voluto la condanna di Brunetto, perché persona autorevole ed influente nella società fiorentina del suo tempo, e coinvolgendo una simile personalità mirava a rendere più acuto il biasimo d’una generazione”. Mario De Rosa, Dante e il padre ideale, Napoli: Federico & Ardia, 1990, p. 97.
[11] L’encicolpedia è reperibile sul sito Treccani. http://www.treccani.it/enciclopedia/islam_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
[12] http://www.treccani.it/enciclopedia/arabi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/. Sia Gabrieli sia il traduttore egiziano Hasan Othman sembrano d’accrodo che la parola “Arabi” nel Paradiso indica gli antichi cartagenesi del Nord Africa. Cfr. Al Comedia al-Ilahiya. Al-Ferdous, Dar al-Maaref, Cairo, 1968, trad. Hasan Othman, p. 149.
[13] Vedi voce “Islam” nell’Enciclopedia Dantesca.
[14] Gabrieli, sotto la voce “Arabi”, sottolinea giustamente che la lingua della produzione scientifica e filosofica di questi scrittori è l’arabo, ma i nomi citati possono essere di stirpe tura o persiana.
[15] Cfr. Italo Sciuto, “Il problema dell’Intelletto in Dante e nell’Averroismo”, in Claudio Gabrio Antoni (ed.), Echi letterari della cultura araba nella lirica provenzale e nella Commedia di Dante, Campanotto Editore, Udine 2006, p. 29.
[16] Vedi Bruno Nardi, Studi di filosofia medievale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1960, p. 60. Per il rapporto tra Dante e l’averroismo vedi dello stesso autore Dal Convivio alla Commedia, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1992.
[17] Vedi, Enrico Cerulli, “Petrarca e gli Arabi”, Rivista di Cultura Classica e Medievale, Studi in onore di Alfredo Schiaffini, VII, 1965, pp. 331-336; e nello stesso volume vedi anche Francesco Gabrieli, “Il Petrarca e gli Arabi”, pp. 487-494.
[18] Vedi Cerulli, “Petrarca e gli Arabi”, p. 336. Cerulli chiude l’articolo con queste parole: “Così il passo delle Senilia sulla poesia degli Arabi è espressione di questa avversione — umanistica e cristiana — del Petrarca alla filosofia che da Guillaume d'Auvergne in poi era stata assimilata — con i grandi nomi di Avicenna ed Averroes — nell'insegnamento filosofico europeo. Certo in tal modo il Petrarca veniva ad accostarsi per un lato, quello religioso, ai conservatori che nel XIII secolo si erano opposti al glorioso lavoro di S. Alberto Magno e S. Tomaso d'Aquino ; ed è questo indizio di quanto dell'uomo medievale era rimasto nel poeta di Laura. Ma al contrario la fierezza nella rivendicazione della latinità contro l'adozione di modi e di pensieri estranei preannunzia nel Petrarca il Rinascimento e ne attesta nell'opera di lui la prima affermazione”.
[19] Un celebre caso simile è dato dalla differenza, nel corso del sceolo XVI, tra Ludovico Ariosto, più tollerante nei confronti dei nemici saraceni, e Torquato Tasso che vede in questi solo barbari.
[20] Miguel Asin Palacios, Islam and the Divine Comedy, Routledge, London, 2008, p. x.
[21] Ibid, xiii.
[22] Uno di tanti esempi: “As a follower of the school of Ibn Masarra, he [Ibn Arabi], like other Spanish Sufis, conceived hell to have the external aspect of a serpent.” Ibid, p. 213. Interestingly enough, the phrase “like other Spanish Sufis” is omitted in the Arabic translation of the book.
[23] Stefano Rapisarda, “La Escatologia Dantesca di Asin Palacios nella cultura italiana contemporanea. Una ricezione ideologica?”, in Antoni..., p. 162.
[24] Vedi a questo proposito il volume di Andrea Celli, Dante e l'Oriente: le fonti islamiche nella storiografia novecentesca, Carocci, Roma 2013.
 
[25] Enrico Cerulli, Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in Occidente, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1972, p. 322.
[26] Vedi Stefano Rapisarda, “La Escatologia Dantesca di Asin Palacios nella cultura italiana contemporanea. Una ricezione ideologica?”, in Antoni... lo studioso italiano sottolinea che l’Academia è un “luogo istituzionale di altissimo prestigio, ove si elabora la politica culturale della nazione”. p. 163.  Nella sua risposta al discorso di Palacios su Dante e l’Islam in questa occasione, Juliàn Ribera dice: “I repeat (and will repeat until satiety, since justice requires it) that the Muslims of the Peninsula were Spaniards: Spaniards in race, Spaniards in tongue, Spaniards in character, taste, tendencies and genius…  and we should consider the merits of this Spanish Muslims to be our own national, Spanish wealth; by means of their civil virtues, they made southern Spain the best run country, the most powerful, the richest and most cultured of the first half of the Middle Ages, and by means of its natural gifts of genius they excelled to such an extent in the deeds of the spirit that they created a peculiarly Spanish scientific, literary and artistic culture, absolutely unique and without equal in any of the previous periods in the history of Spain”. Cited in Karla Mallette, European Modernity and the Arab Mediterranean: Toward a New Philology and a Counter-Orientalism, University of Pennsylvania Press, 2010, p. 57.
[27] Cfr. Edward Said, Orientalism
[28] Vedi per esempio Elizabeth A. Coggeshall, “Dante, Islam, and Edward Said”, Telos, Summer, 2007: pp. 133-151.
[29] Stefano Rapisarda, in Antoni ... p. 162.
[30] Tra gli studiosi italiani che hanno contestato la posizione di Corti c’è Massimliano Chimenti. Vedi Massimiliano Chiamenti, “Intertestualità Liber Scale Machometi-Commedia?”, in Dante e il locus inferni. Creazione letteraria e tradizione interpretativa a cura di S. Foà e S. Gentili, Roma, Bulzoni, 1999 (Studi (e testi) italiani, 4), pp. 45-51.