Beatrice in Muḥammad Mandūr’s Words

Document Type : Original Article

Author

Dipartimento di Scienze Politiche Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, Caserta, Italy

Abstract

The unique relationship between the famous Italian poet Dante and his loved Beatrice was analyzed by the Egyptian critic Muḥammad Mandūr in a text in two parts appeared in Namāḏiǧ bašariyyah, a collection of articles, the majority of which had been published in the Egyptian press in the 1940s. Of the two parts comprised in the said text, the former deals with Beatrice in La Vita Nuova. In this paper, focus will be put on this section itself, in the attempt to highlight the way how Muḥammad Mandūr introduced the figures of this real and imagined woman, and of Dante, to the Arab and Egyptian audience. Mandūr wished to show to what extent and why the Italian poet’s art could be labelled as eternal, according to the critical method he was following those years, for which he owed much to ¦āhā Ḥusayn, Gustave Lanson, and Plato. This period in his literary activity is remembered as being al-marḥalah – or al-naz‘ahal-ǧamāliyyah al-insāniyyah.

Keywords

Main Subjects


 

1. Riflessioni introduttive

            In occasione dei festeggiamenti del settecentenario della morte di Dante Alighieri, mi è sembrato che fosse interessante interrogarsi su come la critica araba, ed egiziana soprattutto, avesse indagato l’universo del celebre poeta italiano e, nello specifico, come lo avesse fatto colui che è conosciuto come Šayḫ al-nuqqād (Il signore dei critici), ossia Muḥammad Mandūr(1907-1965). Lo scopo di questo contributo è di soffermarsi su alcune pagine vergate da Mandūrin cui viene illustrata al lettore egiziano e arabo una delle figure principali di cui il Fiorentino ha cantato, Beatrice. L’attenzione è dunque caduta su un saggio diviso in due parti a firma dell’eminente critico, il quale in esse ha studiato per l’appunto la figura di  Beatrice, così come descritta nella Vita Nuova e nella Commedia.

Lo scritto su Beatrice è stato pubblicato per intero nella raccolta di saggi Namāḏiǧ bašariyyah (Figure umane), in cui vengono presentati al lettore arabofono alcuni dei principali personaggi letterari di lavori occidentali risalenti a varie epoche1. Alcuni dei saggi presenti nel volumeerano apparsi tra il 1941 e il 1944 su due importanti riviste egiziane, al-Ṯaqāfah (La Cultura, 1939-1952), diretta da Aḥmad Amīn (1886-1954), un uomo e intellettuale fondamentale nella vita professionale di Muḥammad Mandūr (al-‘Umrānī, 1988, p. 35 ss.), e al-Risālah (Il Messaggio, 1932-1965), diretta da Aḥmad Ḥasan al-Zayyāt (1885-1968). Su al-Ṯaqāfah era stata pubblicata, tra gli altri scritti, la parte iniziale del testo su Beatrice, quella incentrata sulla Vita Nuova – seppur con incursioni nella Commedia e altre rime dantesche, come si vedrà nel prosieguo –, il 30 settembre 1941, sul n. 144 (Mandūr, 1941, pp. 1274-1279).

Muḥammad Mandūr non era un dantista, eppure fu elogiato per questo suo breve lavoro da uno studioso coevo che, invece, ha dedicato la propria attività all’opera del Fiorentino. Si ritiene pertanto utile e non privo di interesse, in questo contesto, citare le parole di lode e ammirazione rivolte a Mandūr in un articolo del 1955 dall’eminente dantista Professor Hassan Osman (Ḥasan ‘Uṯmān), autore di una celebre traduzione araba in prosa della Commedia (1955-1969), la cui prima parte, l’Inferno, era stata  appena ultimata, come annuncia egli stesso nella chiusa dello scritto (Osman, 1955, p. 52). Si tratta di poche ma significative righe apparse all’interno di questa rassegna degli studi dedicati a Dante e alla sua opera nel mondo arabo, con particolare riferimento alla Commedia, nonché delle traduzioni arabe di questa. Tra gli scritti sul Fiorentino, è per l’appunto citato quello firmato da Muḥammad Mandūr nella sua raccolta, che Osman data al 1951. Quest’ultimo dichiara:

 

Muhammad Mandour, an eminent Egyptian author and writer, has included two chapters on Beatrice in his recent book Human Figures. In the first he defines Beatrice’s place in the Vita Nuova, as Dante’s inspiration for the writing of great poetry. In the second he expounds Beatrice’s role in the Divine Comedy and particularly in the Purgatorio, as a means to the attainment of eternal bliss. The writer here, as elsewhere, is notable for his clarity, appreciation, insight and his vivid and distinguished style. (Osman, 1955, p. 49)

 

Prendendo spunto da questa estrema sintesi del contenuto delle pagine in oggetto  e dalla lode che Osman tesse delle doti di critico di Muḥammad Mandūr, si seguirà il percorso tracciato da quest’ultimo nella sua analisi, anche se, nello specifico, ci si concentrerà sulla prima parte di tali pagine, quella concernente la Beatrice della Vita Nuova, anche se, lo si vedrà, essa prevede alcune incursioni nella Commedia, che diviene il punto focale, invece, della seconda sezione del testo di Mandūr.

Il critico egiziano descrive l’evoluzione cui è andata incontro nel tempo la relazione tra Dante e Beatrice, così come tale rapporto è stato narrato o rievocato o rielaborato dal poeta fiorentino, soffermandosi sulle tappe salienti o, piuttosto, su quelli che Mandūr ritiene essere i momenti topici, nella presentazione dei quali, tuttavia, egli non segue sempre la cronologia fissata da Dante nel suo libello giovanile. Piuttosto, la successione degli eventi (reali o non che fossero, ma comunque trasfigurati nella e dalla materia poetica) viene da Mandūr seguita in taluni punti assai fedelmente, in talaltri con grande libertà, dato che non soltanto egli tralascia moltissimi elementi e situazioni oppure anticipa argomenti per poi tornare sui propri passi e riprendere il filo di un discorso magari lasciato in sospeso, ma oltrepassa anche, talvolta, i limiti della Vita Nuova, per poi ritornarvi, in quanto la linea discorsiva lo portava su una determinata direttrice che non poteva allora essere interrotta. Questo modo di procedere doveva essere dettata, a nostro avviso, dall’esigenza di illustrare al pubblico il più chiaramente possibile l’intima essenza della figura di Beatrice. Come spesso accade, analizzare e far comprendere un testo non può sempre significare rimanere strettamente legati all’ordine cronologico degli eventi in esso presentati, qualora l’ermeneuta impegnato in tale compito ritenga necessario, ai fini di una corretta divulgazione e di un appropriato trasferimento della conoscenza, ricorrere all’utilizzo della prolessi, che non implica soltanto un’anticipazione di eventi narrati nella Vita Nuova, bensì un superamento dei confini di questo libello, giungendo sino alle Rime Petrose e alla Commedia. Beatrice, è ben noto, non è uno dei personaggi delle prime, ma è più che mai in esse presente, grazie all’evidente, stridente contrasto tra lei e l’altra amata da Dante qui da lui resa protagonista e che diviene la poetica personificazione del tradimento consumato dall’uomo e poeta nei confronti di Beatrice; nella seconda, la Commedia, la gentilissima naturalmente ritorna per un rinnovato e sempre più decisivo incontro con Dante. Muḥammad Mandūr descrive con forza e delicatezza insieme questi cruciali passaggi, con l’intento di fornire un quadro esaustivo di Beatrice e del suo significato nella poetica dantesca perché il pubblico arabofono non avvezzo all’universo del poeta italiano potesse cogliere la sostanza di questa muliebre figura.

 

2. Beatrice e l’esperienza dantesca nella Vita Nuova: la lettura di Muḥammad Mandūr

2.1 L’orientamento critico etico-umano e la letteratura sussurrata: il testo letterario per Muḥammad Mandūr

            Per poter comprendere compiutamente la lettura personalissima che del rapporto Dante-Beatrice ha condotto Muḥammad Mandūr, è necessario anzitutto riandare ai principi fondamentali del metodo critico da lui inaugurato nella prima fase della propria attività (1939-1944), ossia la fase estetico-umana (o, si potrebbe altresì rendere, dell’umanesimo), al-marḥalah – o al-naz‘ah, orientamento – al-ǧamāliyyah al-insāniyyah  (al-‘Umrānī, 1988, passim), la quale affonda le radici nello studio degli insegnamenti del primo Maestro di Mandūr, il grande letterato egiziano ¦āhā Ḥusayn (1889-1973), del filologo, critico e storico della letteratura francese Gustave Lanson (1857-1934), e, infine, nell’ammirazione viscerale dello Šayḫ al-nuqqād per Platone (al-‘Umrānī, 1988, passim). Questa teoria è stata esposta dal critico nel libro Fī ’l-mīzān al-ǧadīd (La poesia nuova) che, pubblicato nel 1944, raccoglie articoli apparsi precedentemente. Il libro è dedicato a ¦āhā Ḥusayn, dal quale Mandūr sente di aver preso due elementi fondamentali: «il coraggio di esprimere le proprie opinioni» e «la fede nella cultura occidentale, specialmente in quella greca e in quella francese» (Mandūr, 2020, p. 7). Il critico intendeva porre le basi di una nuova modalità non soltanto di analisi letteraria, ma anche di intendere la letteratura e quindi di composizione artistica. Pertanto, i suoi scritti volevano essere, tra l’altro, un invito agli autori egiziani soprattutto perché si affrancassero da una scrittura roboante e altisonante che privilegiava «il chiasso» (al-¥an¥anah) e si dedicassero, piuttosto, a una letteratura sussurrata (adab mahmūs), come si evince da una lettura della raccolta (Mandūr, 2020, pp. 28, 35, 89). Egli sottolinea: «Molti dei nostri scrittori avrebbero bisogno di umiltà. Anzi, di semplicità, perché la loro letteratura diventi un sussurro, così come lo è diventata la maggior parte della letteratura eterna» (Mandūr, 2020, p. 16). al-Adab al-mahmūs è, per lui, una letteratura «umana, sincera e autentica» (insānī ṣādiq muḫliṣ)  (Mandūr,  2020, p. 25).

Ordunque, sulla base della teoria critica elaborata da Mandūr, per la quale, come già rilevato, tanto egli è stato influenzato dagli insegnamenti di Gustave Lanson e ¦āhā Ḥusayn, nell’analizzare un testo letterario, un critico arabo moderno dovrebbe fondarsi, da un lato, sulla valutazione della forma e dello stile del testo stesso, e, dall’altro, sull’aspetto umano, che si traduce nella comprensione dell’animo umano. Da ciò consegue che il letterato è colui che aiuta l’Altro a comprendere se stesso tramite l’opera letteraria. Esattamente in ciò consiste l’intimo significato dell’espressione naqd al-ḥayāh, che rende il famoso sintagma di Matthew Arnold (1822-1888) criticism of life, un principio che, secondo il critico egiziano, è stato da altri frainteso e che, invece, sta a significare il comprendere la vita e l’animo umano  (Mandūr, 2020, pp. 167-168).

Si potrebbe dunque concludere questo punto asserendo che analizzare la figura di Beatrice e, nel contempo, quella di Dante, colpito e mutato dall’incontro con la gentilissima, significa per Mandūr descrivere tipi umani conoscendo e comprendendo i quali il lettore è messo in grado di scandagliare il proprio animo e di cercare una via per migliorarsi o riscattarsi. Dall’estetica del testo, dalla sua forma, si passa al suo contenuto, che per essere davvero artistico e letterario deve tendere alla conoscenza dell’umanità delle figure, tra loro assai varie, che popolano il mondo, quello reale e quello immaginato.

L’universo della Vita Nuova in cui si muove leggiadra Beatrice è dunque quello di un’opera letteraria sussurrata, ossia un’opera letteraria che profuma di eternità?

 

2.2 La Vita Nuova, «un racconto in cui la letteratura e la vita si mescolano»

            Significativo è che il passo chiave del discorso di Socrate dal Simposio di Platone, ossia là dove viene delineato il legame tra Amore e Bellezza, sia scelto da Mandūr quale incipit del suo scritto. Si tratta, com’è noto, del famoso discorso nel quale Socrate dichiara di riportare le parole della sua Maestra Diotima di Mantinea sulla natura di Eros.

La predilezione di Mandūr per Platone è cosa risaputa, e vi si è fatto cenno in precedenza. Anzi, l’amore di Mandūr per il filosofo greco può dirsi la linfa che dà nutrimento alla teoria critica cui si è accennato e che fu seguita sin dal 1939 dall’intellettuale egiziano, dopo  il suo ritorno in Egitto dalla Francia, dove aveva vissuto ininterrottamente nove anni e dove aveva continuato gli studi giuridici e quelli letterari, questi ultimi iniziati al Cairo sotto la guida di ¦āhā Ḥusayn. Alla Sorbonne aveva conseguito quattro lauree, tra cui quelle in letteratura francese e greca (al-‘Umrānī, 1988, p. 27, n. 11), per cui si può ipotizzare che il brano tratto dal Simposio sia stato volto in arabo da Mandūr stesso. È da rilevare che esattamente questo brano par costituire – nell’ambito del fondamentale ruolo svolto dalla letteratura e cultura greca nella costruzione dell’universo di Mandūr, all’interno del quale spicca per l’appunto la filosofia platonica – la più autentica base su cui si fonda l’intero impianto teorico dell’intellettuale. Per questo motivo sembra utile riportare il testo proposto da Mandūr nel suo scritto su Beatrice – e la  sua traduzione italiana  –, per poter osservare da vicino la maniera in cui viene rielaborato il messaggio dal filosofo greco esplicitato nel Simposio: da qui il critico egiziano muoverà per entrare nel vivo della discussione e quindi esporre la propria interpretazione di eventi e personaggi della Vita Nuova anzitutto.

 

عندما نسمو من مظاهر الجمال الدنيا إلى  الجمال الکامل نلمح ضياءه، نحس أننا قد دنونا من الحب، وفي الحق ما الحب إلا شوطا نبدؤه مما فوق هذه الأرض من جمال، والبصر منعقد بالجمال المطلق ما يزال يرتفع إليه درجة فدرجة على طول السلم: من جمال الأجسام إلى جمال المشاعر، ومن جمال المشاعر إلى جمال الأفکار، حتى نصل إلى المعرفة المطلقة التي هي إدراک الجمال المطلق. إدراک  ذلک المثال الخالد الذي تمنح مشاهدته الحياة قيمتها              

(Mandūr, 1997, p. 70)

 

Quando ci eleviamo dalle manifestazioni del bello di quaggiù al bello in sé, ne vediamo lo splendore e sentiamo di esserci avvicinati all’Amore. In verità, cos’è l’amore se non una meta a partire dalla bellezza che è su questa Terra? La conoscenza del Bello assoluto  continua a progredire verso di esso grado a grado lungo la scala: dalla bellezza dei corpi alla bellezza dei sentimenti, dalla bellezza dei sentimenti alla bellezza dei pensieri sino a pervenire alla conoscenza assoluta che è la comprensione del Bello assoluto, la comprensione dell’archetipo eterno la cui visione diretta dona alla vita il suo valore2.

Il brano introduce immediatamente il lettore nel mondo di Dante-Beatrice, la cui esperienza, così come narrata nella Vita Nuova, diviene una poetica esemplificazione di quanto espresso nel dialogo platonico. Molto interessante è che tutto ciò che segue nel testo di Mandūr rappresenti una chiarificazione di quanto nell’incipit è stato espresso, avendo il critico egiziano la precisa intenzione di porre in evidenza i punti per lui assolutamente essenziali, focali, che l’analista e il lettore devono tenere da conto per poter compiutamente affrontare una indagine sulla figura di Beatrice. Nel corso della trattazione di Mandūr verranno selezionati, citati, parafrasati, quegli episodi che meglio, a suo avviso, possono mostrare al pubblico egiziano (e arabo) aspetti forse sconosciuti ai più di una letteratura occidentale imperitura. Effettivamente, se si ritorna al discorso sulla necessità di un adab mahmūs in Egitto in particolare, il messaggio del critico è soprattutto rivolto agli scrittori (e agli aspiranti tali) nel Paese del Nilo, ai quali egli vuol illustrare quali siano alcuni tratti di un’arte che aspiri ad essere eterna. Fa ciò descrivendo i fondamentali elementi della storia del legame esistente tra i due amanti fiorentini, la cui essenza può cercarsi invero nell’ideale amore platonico illustrato nel Simposio

Immediatamente dopo il brano tratto dal dialogo platonico, Mandūr rammenta o svela al lettore quale opera ne sia la fonte e quale il precipuo messaggio. Egli sottolinea che nel passo si indicano le tappe attraverso le quali Amore procede  per raggiungere il suo fine, la conoscenza del Bello, al-Kamāl, al quale Dante sarà condotto per mezzo della «bellezza di Beatrice» (Mandūr, 1997, p. 70). Qui è il compito assegnato alla gentilissima amata da Dante. Anzi, Mandūr prosegue chiedendosi quale sia il motivo per il quale Dante persevererà nell’amore per questa fanciulla leggiadra: il motivo sta nel suo essere simbolo della fede (īmān) o perché indica, preannuncia il Paradiso? (Mandūr, 1997, p. 70) Questa è la domanda a cui il critico egiziano cercherà di dare una risposta nelle pagine che seguono.

E ciò farà indugiando, almeno al principio, su un particolare: il sorriso (ibtisāmah) di Beatrice.

La prima ricorrenza del termine avviene allorché il critico egiziano compie un’incursione in Purgatorio XVI, vv. 86-88, laddove Dante descrive «l’anima semplicetta» la quale si presenta «a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia». Ebbene, il lemma ibtisāmah viene da questo punto ripetuto più volte da Mandūr, ma d’ora in avanti con riferimento al sorriso di Beatrice. «Che portento!», Mandūr  scrive. «Una piccola fanciulla invia il proprio sorriso a questo grande cuore e il sorriso rimbalza, ormai divenuto poesia che tanti animi ha scosso...»  (Mandūr, 1997, p. 70), ed è ancora questo sorriso che risolleva Dante provato dall’esilio (concreto e intellettuale – si consideri il “traviamento” che, nella Vita Nuova, dalla gentilissima lo porta ad avvicinarsi alla gentile, quindi dalla teologia alla filosofia)  e che, continua Mandūr, «plasma una bellezza in cui è una potentissima ebbrezza, quella della creazione» (Mandūr, 1997, p. 70).

Segue la presentazione di Beatrice quale figura storica e quella dell’opera La Vita Nuova, in cui, viene spiegato, prosa e poesia si alternano offrendo una storia particolare in cui, soprattutto, vi è  una mescolanza, una con-fusione tra letteratura e vita, la già citata frase «un racconto in cui la letteratura e la vita si mescolano» (Mandūr, 1997, p. 71), il che è un chiaro rimando alla teoria critica estetico-umana propria di Mandūr. Il particolare aiuta il lettore a comprendere il perché della trattazione di quest’opera e della figura di Beatrice da parte di Mandūr: La Vita Nuova, infatti, è a pieno titolo, secondo i canoni stabiliti dal critico egiziano, un lavoro letterario eterno, e la sua protagonista un tipo “umano” degno di essere descritto alle persone di ogni tempo.

Per chiarire compiutamente le proprie asserzioni, Mandūr si sofferma sulla celebre narrazione del primo incontro tra i due fanciulli, la cui descrizione verrà anch’essa, come già accaduto con un altro passo in precedenza, proposta in tre forme: l’originale dantesco, la trasposizione in arabo (benché non vi sia, in chi scrive, la certezza che sia stato lo stesso Mandūr a compierla)3 e la traduzione italiana di questa.

 

Apparvemi vestita di nobilissimo colore umile ed onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. In quel punto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora nella segretissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando, disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi. In quel punto lo spirito animale, il quale dimora nell’alta camera, nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto; e parlando spezialmente alli spiriti del viso, disse queste parole: Apparuit iam beatitudo vestra. In quel punto lo spirito naturale, il quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere; e, piangendo, disse queste parole: Heu miser!, quia frequenter impeditus ero deinceps.

            D’allora innanzi dico che Amore signoreggiò l’anima mia, la quale fu sì tosto a lui disponsata; e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria, per la virtù che gli dava la mia imaginazione, che mi convenia fare tutti i suoi piaceri compiutamente. Egli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere quest’angiola giovanissima, ond’io nella mia puerizia molte volte l'andai cercando; e vedeala di si nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio. (VN, I)

 

رأيتها في ثوب أحمر جليلة متواضعة، وقد علق حزامها الثوب فيما ينم عن طفولة خالصة، فاهتزت في قباب قلبي الخفية روح الحياة، وسرت تلک الهزة العنيفة بأوعية دمى ما دق منها وما جل، وصاحت بي روح الحياة ها هو إله أقوى منک سلطاناً، ها هو قادم، وإنه لخضعک. ومنذ ذلک الحين مازج الحب نفسي التي أضحت أسيرة له، وزاد من سلطانه ما منحه خيالي من قوة، حتى لم أستطع إلا أن أذعن له في کل أمر، ولکم عدوت في الطرقات وأنا بعد غض الإهاب خلف تلک الحسناء، ولکم رأيتها قادمة   وفيها من الجلال والنبل ما يحق معه أن نقول فيها ما قال هوميروس، في الحق إنها لا تلوح بنت بشر. بل بنت إله  

(Mandūr, 1997, p. 71)

 

La vidi vestita di rosso, (appariva) nobile e umile, con la veste cinta così come si conveniva alla fanciullezza. Nascosto nelle concavità remote del mio cuore, lo spirito della vita tremò, e quel vigoroso tremore nei vasi del cuore ne provocava il pulsare, or debole or possente. Lo spirito della vita in me esclamò: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi. Ecco che giunge a dominarti. Da quel momento, l’amore si fuse con la mia anima, che ne divenne prigioniera. Il suo potere crebbe per la forza che gli conferiva la mia immaginazione, sino a che non potei far altro che arrendermi a esso completamente. Quante volte andai per le vie, giovanetto, dietro a quella bella; quante volte la vidi avanzare nobile e splendida, tanto  che giustamente poteva dirsi di lei ciò che disse Omero:  Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di Dio.

 

Come si può ben notare, la trasposizione offerta nel saggio dell’Egiziano, e che è posta tra virgolette caporali, stanti a significare che qui dovrebbe trattarsi di una vera e propria citazione, non è in realtà tale. Non è, cioè, una traduzione fedele – per quanto una traduzione possa esserlo –, bensì una sintesi e parafrasi, ma anche una riduzione, in qualche punto. Alcuni passaggi sono difatti esclusi o sintetizzati. Tuttavia, il nucleo essenziale della descrizione fisica e morale della fanciulla e, insieme, del nascente tormento amoroso in Dante suo coetaneo risaltano con accenti poetici che, grandemente percepibili nella prosa del Fiorentino, vengono qui smussati da un intento che appare essere ermeneutico e pedagogico, in linea con il carattere generale dell’intero scritto del critico egiziano.

Introducendo il secondo incontro tra Dante e Beatrice, avvenuto come noto a nove anni di distanza dal precedente, Mandūr fa accenno alla rilevanza della simbologia numerica nel Medioevo e, nello specifico, del numero nove nell’opera dantesca, giacché esso è basato sul tre, il quale ovviamente allude alla Trinità, una sorta di profezia dell’autentico significato della giovanetta per lui  (Mandūr, 1997, p. 71). Mandūr  offre in questo punto una parafrasi, con molte omissioni, di VN, II, dove dalla prima persona della narrazione omodiegetica e autodiegetica del testo originale si passa alla terza persona di una narrazione eterodiegetica in cui la voce narrante è onnisciente. Qui, nuovamente, il critico egiziano utilizza il lemma ibtisāmah, che è reiterato tre volte, quasi rappresentando ciò un richiamo alla Trinità e al Bello, di cui si fa presaga figura colei dalla quale si irradia quel sorriso:

 

رآها هذه المرة في ثوب أبيض، وهي مارة بإحدى الطرق، وإلى مکانه اتجهت ببصرها وعلى شفتيها ابتسامة،                      (Mandūr, 1997, p. 71)                                    وتلقي الشاعر ابتسامتها بقلب خاشع، وکأن الابتسامة فيض من رضا الله.

 

[Dante] [l]a vide questa volta con una bianca veste mentre andava per una via. Verso il luogo dov’egli era, ella rivolse lo sguardo con sulle labbra un sorriso. Il poeta accolse il di lei sorriso con cuore sottomesso, come se il sorriso fosse emanazione del favore divino.

 

Si ricordi il testo fonte di Dante:

 

questa mirabile donna apparve a me, vestita di colore bianchissimo, in mezzo di due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e, passando per una via, volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso; e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutò virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine.

 

Il sorriso di Beatrice, su cui tanto insiste Mandūr, è sottinteso nel testo fonte, giacché implicito nella foggia del saluto della madonna della poesia stilnovista. Esso è dal critico egiziano reso esplicito per un intento che, ancora una volta, appare didattico, ossia quello di spiegare al pubblico arabo e soprattutto egiziano alcune convenzioni della lirica cortese occidentale, che peraltro ha tanti tratti in comune con la poesia d’amore, il ġazal, com’è notorio. Su questo aspetto il critico si soffermerà dopo poco più di una volta, pur senza dilungarsi, come se, in realtà, non gli premesse tanto offrire un’attenta disamina della questione, il che, in effetti, avrebbe comportato una grande digressione, rispetto al tema del saggio.

Nondimeno, egli in effetti  compie una digressione, ma di natura completamente diversa, la quale rivela, da una parte, una profonda tenerezza e delicatezza dell’uomo Muḥammad Mandūr, mentre dall’altra catapulta il lettore nuovamente in una concreta esemplificazione del significato de al-naz‘ah  al-ǧamāliyyah al-insāniyyah di cui il critico  si fa portavoce e che, in fin dei conti, crea un legame tra le istanze della critica letteraria moderna fondata sull’analisi del testo scientificamente condotta e la sensibilità profonda dell’uomo  mediterraneo e, nello specifico, di quello egiziano. Mandūr, infatti, nell’illustrare al lettore quanto la gioia e l’ebbrezza di Dante nell’udire per la prima volta l’amata rivolgersi a lui direttamente avessero spinto il giovane a desiderare la solitudine e il raccoglimento, paragona questa sua esigenza a quella avvertita da una persona privata dell’affetto materno sin dall’infanzia e che cerchi un qualche conforto presso la matrigna (Mandūr 1997, p. 71). Questo parallelismo è apparentemente fuor di luogo, non consono al discorso qui condotto, quasi fuorviante e dissonante, se non fosse per la notoria condizione di Dante rimasto orfano in tenera età, condizione che però non viene spiegata in questo scritto, ma evidentemente data per conosciuta al pubblico arabo. Anzi, Beatrice par essere qui metafora della madre dispensatrice d’amore, e quindi la mente corre al paragone madre-Beatrice presente in Paradiso XXII, 1-3. L’accennare alla condizione di orfano o comunque di giovane orbato da lungo tempo dell’affetto materno è anche in questo caso indice della volontà di Mandūr  di esaltare la precipua caratteristica dell’opera d’arte eterna, la quale ha l’obiettivo di aiutare il fruitore a comprendere se stesso attraverso il contatto con le figure letterarie.

Mandūr  continua raccontando che il sorriso di Beatrice avrebbe continuato ad apparire a Dante in sogno, quel sogno che lo avrebbe condotto a poetare nel nuovo stile. Il critico egiziano si sofferma dipoi sulla debolezza di Dante e il suo, stavolta, sorriso dinanzi alle domande della gente sul suo stato, visibilmente dovuto all’amore per una donna che, secondo le convenzioni poetiche, doveva rimanere sconosciuta. Vi è quindi un riferimento alla poesia di ‘Umar b. Abī Rabī‘ah il quale, famoso cantore dell’amore cittadino carnale e promiscuo, ma anche dell’amore totalizzante che nutriva nei confronti di Ṯurayyā, nei suoi versi dimostra di adottare le regole e i modi che, secoli dopo, sarebbero stati propri dell’amor cortese (Colominas Aparicio, 2010-2011) e che implicavano, ad esempio, la presenza di una o più donne dello schermo (Mandūr, 1997, pp. 71-72)4.

Oltre a nutrire un profondo amore – sin dagli inizi sacro e chissà per quale ragione impossibile da concretizzarsi nella vita terrena, nonostante il grande legame di amicizia tra le famiglie dei due giovani  –  per Beatrice, che era in realtà già andata in sposa a Simone de’ Bardi, Dante, che doveva essere fidanzato con la futura moglie Gemma Donati, non disdegnava di intrattenere relazioni con altre donne (Mandūr, 1997, p. 72). Di nuovo l’esistenza reale e concreta entra nell’arte e il critico crea una connessione tra il mondo occidentale e quello arabo-musulmano, dove il riferirsi all’istituzione del matrimonio combinato era un tasto estremamente sensibile ancora nel XX secolo, così come lo era quello dell’amore idealizzato e niente affatto realizzabile, l’unica evasione dalla realtà per due giovani destinati a non vivere pienamente il proprio amore. Mandūr spiega l’irrequietezza amorosa di Dante – che sarebbe iniziata dopo il matrimonio della gentilissima – con l’immenso suo dolore per l’impossibilità di concretizzare l’affetto che prova per Beatrice, e una delle donne a cui si lega è Pietra (Mandūr, 1997, p. 72).

Proseguendo con la usuale pacatezza e delicatezza, che sembrano rendere la sua prosa simile a quella sussurrata, Mandūr si dice sorpreso del fatto che il Fiorentino abbia ammesso di essere oltremodo infatuato di Pietra. Certo, sembra di poter chiosare, si trattava di due tipi ben diversi d’amore che egli provava per lei, da un lato, e per Beatrice, dall’altro, eppure è come se le parole di Mandūr volessero sottolineare una certa sua difficoltà nel riuscire a comprendere come Dante avesse avuto l’ardire, quasi, di deviare da un amore celeste per abbandonarsi a un tipo di relazione totalmente differente. Soprattutto, però, il critico egiziano pone l’accento su due fattori niente affatto irrilevanti nella vita di un amante, ossia il dolore e la tristezza, che sempre portano l’uomo a perdere la rotta, e ciò è quanto dovette provare Dante, quasi indotto così, dallo sconforto, a tradire Beatrice, la cui morte, avvenuta nel 1290, avrebbe «purificato il suo amore, mentre la giovane si sarebbe trasformata nell’angelo indicante al poeta la strada verso il Bello» (Mandūr, 1997: pp. 72-73). Impossibile dire, commenta Mandūr, se ciò sia vero, ma certo Dante visse tribolazioni in amore e politica, come testimoniato dal celeberrimo incipit della Commedia  (Mandūr, 1997, p. 73). La sua veemente personalità lo avrebbe portato a comporre le già menzionate Rime petrose, al cui interno sono per l’Egizianodi particolare interesse i vv. 66-78 da Così nel mio parlar voglio esser aspro. In questi versi, la descrizione è così cruda per parole e immagini che all’ascoltatore e al lettore la caduta giù per i “gradini” di platonica memoria che fanno progredire l’amante verso la contemplazione del Bello si offre con lampante plasticità che, in qualche maniera, sembra stordire e anche rattristare (Mandūr, 1997, p. 73).

Dante avrebbe sempre fatto dipendere la propria vita dal sorriso di Beatrice, la quale in eterno avrebbe conservato un’immagine virginale. Anche a tal proposito, ossia nel sottolineare che si possa trarre continua ispirazione poetica da una donna, il critico egiziano riccorre a esempi di poesia araba classica perché in questo modo si crei un legame palpabile e comprensibile ai lettori tra l’arte del vate occidentale e l’arte di grandi e ben note personalità del mondo arabo-musulmano. Più in generale, per dimostrare anche ai lettori più restii la presenza di elementi comuni tra le due tradizioni poetiche che potrebbero indicare quanto fin dal più lontano passato la poesia e letteratura araba abbiano in sé quei caratteri di eternità ravvisabile nelle opere occidentali e, nel caso specifico, in quella del Fiorentino5.

Secondo l’interpretazione di  Mandūr, sarebbe stata la forza di Dante a non permettergli di tenere celata lungamente la verità, continuando a ricorrere alle donne dello schermo, come dettava la tradizione dell’amor cortese occidentale, e quella araba similare. Questo perché avendo Dante seguito fedelmente tale pratica e avendo le cattive lingue informato Beatrice del suo presunto profondo attaccamento a un’altra donna, Beatrice, alla prima occasione, gli aveva tolto il saluto (Mandūr, 1997, pp. 73-74; VN, X). Il successivo incontro casuale con la gentilissima (VN, XIV) finalmente svela all’intera Firenze la verità, e il dolore di Dante lo porterà a scrivere il sonetto Ciò che m’incontra nella mente more (VN, XV), la cui sintesi in arabo viene presentata da Mandūr, il quale prima aveva offerto al lettore arabo anche la versione del momento del suddetto incontro tra i due amanti  (Mandūr, 1997, p. 74). Ormai la verità è stata rivelata a tutte le donne che, ridendo di lui, gli chiedono, in sostanza, perché ami qualcuno/qualcosa di inarrivabile per lui (VN, XVIII), un episodio che dà l’agio al critico egiziano di ricordare ai propri lettori un episodio occorso tra le «donne degli arabi» e il celebre poeta dell’amore ‘uḏrita Ǧamīl (Mandūr, 1997, p. 74). Come ben si sa, frutto delle riflessioni conseguenti di Dante è una delle più famose sue canzoni, ossia Donne che avete intelletto d’amore (VN, XIX), di alcuni versi (vv. 29-42) della quale viene da Mandūr  proposta una traduzione/adattamento (Mandūr, 1997, pp. 74-75), perché questo è, nell’opinione del critico, il punto esatto in cui Beatrice si trasforma nel «simbolo del Bello e nella strada che a esso conduce […]. E chi non sente che ora stiamo salendo i gradini di Platone e che nella giovane non si ravvisa più un corpo da desiderare, bensì la bellezza di uno spirito che è ormai evidente [...]?» (Mandūr, 1997, p. 75). In questo punto, dunque, si palesa quanto Dante avesse ben appreso gli insegnamenti platonici impartitigli da Brunetto Latini, ed è qui, ancora, che viene dal Fiorentino espresso egregiamente l’ideale cortese e della cavalleria. In pochi righi è condensato un intero universo: «In tal modo, si riuniscono nella nostra giovane [Beatrice] tutte le correnti spirituali diffuse nel Medioevo, concentrate nell’animo di Dante, che rappresenta quell’epoca nei suoi aspetti più profondi [...]» (Mandūr, 1997, p. 75). Poi giungono la morte di Folco Portinari, padre di Beatrice; la malattia di Dante; il presagio della morte della gentilissima; la sua dipartita nel 1290; il dolore che colpisce l’intera città di Firenze e la notizia che rimbalza tra i grandi della Terra grazie a Dante (VN, XXII-XXX). Finalmente, il poeta trova un qualche conforto nella donna gentile, simbolo della filosofia (VN, XXXV-XXXVIII), e quindi il pentimento di Dante allorché ha la visione di Beatrice vestita di rosso come al primo incontro e la decisione di abbandonare il pensiero della donna gentile per ritornare alla sola «gentilissima Beatrice»(VN, XXXIX).

Ancora una volta, per il critico egiziano il dolore per la perdita dell’amata porta Dante a scegliere quasi delle “distrazioni”, che egli trova nella politica, ma le sue scelte, come si sa, lo condurranno all’esilio e a prendere le distanze da una certa politica. Pertanto, scrive Mandūr, il poeta ritorna al suo Amore e, come Dante verga in VN, XLII, la nuova visione di Beatrice lo persuade a dedicarsi allo studio per poter «dire di lei quello che mai non fu detto d’alcuna» e spera, infine, di ricongiungersi un giorno con lei in Cielo, se Dio lo vorrà. Dante infatti nella Commedia parlerà di Beatrice, che dal Purgatorio lo guiderà verso il Paradiso (Mandūr, 1994, p. 77).

 

3. Conclusione

            Beatrice e Dante nella Vita Nuova: Muḥammad Mandūr ne ha illustrato le caratteristiche peculiari in una maniera molto delicata e riuscendo a coglierne l’aerea natura. Al contempo, ha scritto di Beatrice e del suo significato all’interno della poetica dantesca in modo erudito e, insieme, chiaro, perché l’essenza del messaggio dal Fiorentino veicolato attraverso la propria amata potesse essere facilmente attingibile anche da chi per la prima volta a tale figura muliebre si accostasse. Un aspetto sul quale sembra opportuno tornare e rimarcare, è che la lettura di queste pagine rivela un profondo intento pedagogico che si esplicita attraverso un utilizzo di un linguaggio e uno stile elegante e tuttavia di facile comprensione; il ricorso a traduzioni/adattamenti e parafrasi di alcuni passaggi ritenuti fondamentali per riuscire a comprendere appieno la natura e peculiarità del rapporto Dante-Beatrice; il ricorso, poi, alla comparazione con autori, generi e tematiche ben note al pubblico arabo-egiziano con una conoscenza della tradizione letteraria classica, nonché una certa dimestichezza con la cultura dell’antica Grecia. Il lettore destinatario delle pagine di  Muḥammad Mandūr è quindi colto, pertanto quella del critico egiziano può dirsi alta divulgazione, non scevra, tuttavia, di uno sguardo rivolto anche a un pubblico medio che desideri arricchire il proprio bagaglio culturale grazie a letture in cui l’erudizione, l’eleganza stilistica, l’umanità e profondità di analisi risaltano.

Il modo in cui Mandūr presenta l’universo dantesco e specialmente la relazione Dante-Beatrice è una scrittura originale che se da una parte si sostanzia di traduzione, compendio e sintesi/compilazione, dall’altra reca in sé una delicata poesia che rende questa presentazione una sorta di specchio in cui l’anima dei due protagonisti si riflette rivelandosi pienamente.

 

 

 

 

                                                           Notes

  1.  Diverse sono state le edizioni dell’opera. La prima sarebbe apparsa nel periodo 1943-1944 (al-‘Umrānī, 1988, p. 69). Per la redazione di questo contributo è stata consultata l’edizione del 1997. Cfr. la Bibliografia.

 

[1]         Si veda anche la traduzione dall’originale greco a opera di Giovanni Reale: «[…] la giusta maniera di procedere da sé o di essere condotto da un altro nelle cose d’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere quel Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il bello in sé» (Platone, 2001, p. 518).

 

[1]          Per una recentissima traduzione, cfr. quella effettuata dal Prof. Hussein Mahmoud  nel 2021.

 

[1]          Cfr. anche Fawzy, 2021.

 

[1]          Mandūr cita ‘Ubayd Allāh b. Qays b. al-Ruqayyāt e Umm al-Banīn;  di ‘Umar b. Abī Rabī‘ah nella sua relazione con Sakīnah bt. al-Ḥusayn e ‘Ā’isah bt. Ṭalḥah, e con la sorella e la figlia del Califfo ‘Abd al-Malik b. Marwān.

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
                                                                              Bibliografia
 
           
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