La natura umana nella tragedia di 'Delitto all'isola delle capre' di Ugo Betti

Document Type : Original Article

Author

Badr University in Cairo

Abstract

The present study analyzes the representation of human nature in ''Delitto all'isola delle capre'' (1948) by Ugo Betti. The aim of this article will be achieved through a critical and analytical study of the tragedy: to show the co-presence of Good and Evil, as essential entities in the Bettian man, who carries with him the condemnation of a sin and an existential guilt so much heavy as possible expiation. In fact, Betti's characters face their existence, characterized by the perennial conflict between the real and the ideal that is both aspired to and impossible to achieve, in a state of solitude and anguish that leads them to perform the lowest actions of human nature. However, it is in this scenario of humanity that the writer allows us to glimpse a glimmer of light for his characters, through a hope in religion which however points to a probable, and therefore not certain, way out in the world of the afterlife and not in earthly life because the Bettian God is a God who silently witnesses human decay.

Keywords

Main Subjects


 

Nel seguente articolo verrà analizzata la rappresentazione della natura umana attraverso lo studio della tragedia teatrale ‘Delitto all’isola delle capre’ (1948) di Ugo Betti.

La scelta del titolo, in particolar modo del termine ‘tragedia’ anziché ‘dramma’ si rifà alla scelta di marcare il carattere esistenziale della condizione umana, contenuto nell’opera dello scrittore. Alcuni critici[1] infatti hanno scelto di denominare lo scritto bettiano con il termine ‘dramma’ in quanto seppur inziando male, l’opera ha un esito positivo: la morte della figura del seduttore delle donne, Angelo. Tuttavia, nell’epilogo dell’opera non vediamo che la tragedia dell’esistenza umana, del personaggio bettiano che, come altri suoi confratelli, non si riconcilia, e non può in alcun modo riconciliarsi, con il mondo[2] perché tutti i personaggi bettiani sono colpevoli allo stesso modo.

L’opera, composta da tre atti, narra la vicenda di tre donne che vivono in una casa in rovina, circondata da una brughiera: Agata, la quale vi è giunta per prima assieme al marito, la figlia Silvia e la cognata Pia. Un giorno il marito di Agata è fuggito, senza dare più notizie di sé. A rompere ora questa solitudine ecco sopraggiungere Angelo: uno strano individuo, sfacciato, remissivo, furbo; una a una esse cadono in dominio del forestiero. La tragedia si consuma quando Angelo scende in un pozzo e la scala gli scivola; le donne potrebbero salvarlo gettandogli una corda, ma dapprima esitano, poi assistono agli sforzi disperati di lui, infine alla sua agonia. E quando Pia e Silvia si allontanano, Agata rimane ferma, come impietrita e desidera possedere l’uomo per l’eternità poiché egli ormai è tutto suo.

Risiede in quest’opera il nucleo forse più chiaro e rappresentativo della natura umana dell’intera opera teatrale dello scrittore. Nei personaggi bettiani vediamo apparire un dualismo antitetico caratterizzato dalla scoperta di aspirare al Bene e all’amore e alla consapevolezza della propria debolezza che non permette a queste auliche aspirazioni di realizzarsi.[3] La loro natura umana infatti è divisa tra il Bene e il Male, poiché in essi risiedono le due parti come enti imprescindibili ed allo stesso momento inconciliabili nel regno terreno quale è il mondo in cui vivono i personaggi. Si tratta di un contrasto tra il peso della colpevolezza derivante dalle azioni commesse (connessa dunque all’essenza esteriore dell’uomo) e l’attrazione per l’ideale limpidità dei sentimenti a cui tende l’esistenza interiore dell’uomo. Un divario che il personaggio bettiano avverte in sé tra realtà e aspirazione[4]; si osservino le seguenti parole di Agata, ormai consapevole insieme alle altre donne della morte di Angelo:

Agata: ... Però non è dipeso da noi. Questa cosa... 

            doveva accadere. Ormai è accaduta.

Silvia (tremando): Mamma, tu lo sapevi. Tu potevi  impedirlo...

Agata: (come assorta): No, non potevo.[5]

Il conflitto tra il reale, caratterizzato dalla colpevolezza della donna di aver assistito inerte alla morte dell’uomo nel pozzo, e l’ideale aspirato, dell’innocenza e del Bene, risulta evidente nelle parole della donna: ella non commette l’omicidio dell’uomo volontariamente, si tratta infatti di una caduta accidentale nel pozzo, quella di Angelo, ma il suo tradare nel soccorrere l’uomo rivela quella parte oscura della donna che lei stessa sembra rifiutare quando afferma che il tutto è accaduto senza dipendere dalla sua volontà. Eppure è stato l’istinto di sopravvivenza di Agata il motore principale, quello che ha azionato l’ingranaggio della morte di Angelo, la donna infatti decide di non gettare la corda nel pozzo all’uomo perché crede che questa sia l’unica via d’uscita all’imminente catastrofe che era in procinto di colpire le tre donne.

  Il Male di cui parla lo scrittore nelle sue opere risulta essere come una presenza che incombe perennemente sui personaggi, è un qualcosa che colpisce l’intera condizione umana e non si tratta di un Male le cui origini sono da attribuire alla società e all’ambiente, dunque alla realtà esterna all’uomo, come il pensiero positivistico filosofico dell’Ottocento affermava, ma piuttosto si tratta di un Male derivante dall’interno dell’uomo, dalla sua stessa indole. Una posizione questa che risulta molto affine a quella di un altro importante letterato russo, Dostoevskij, e di cui Ugo Betti afferma di esserne stato influenzato nei suoi anni di formazione.[6] Il Male così diviene frutto di una libera scelta dell’uomo e non di un’imposizione derivante dall’esterno, esso inoltre non viene inteso come assenza di bene, ma un atto consapevole di rivolta e di rinnegamento nei confronti di una possibile positivita’; l’atto di  Agata infatti è un atto chiaro e scelto, si tratta quindi di un atto negatore (poiché la donna nega la salvezza ad Angelo) e distruttore.

  La vedova sceglie la distruzione, dimostrando che il male non rappresenta la debolezza e la fragilita’, ma qualcosa di più potente e imponderabile, surrogato di una realtà e soprattutto di un’assoluta volontà di arbitrio, ne consegue che il male non può essere altro che il figlio della libertà, esattamente come sosteneva l’autore russo che Betti tanto ammirava[7]. Per questo motivo la scelta tra bene e male spetta unicamente all’uomo, il quale è per forza chiamato a prendere posizione come se da lui dipendesse il suo stesso destino ed è proprio qui che risiede la tragedia della libertà, poiché la libertà per Agata e le altre due donne risiede nel non salvare Angelo[8].

Lo scirttore, così, mostra la presenza del male come un qualcosa di insito nella più profonda e interiore natura dell’individuo, divenendo dunque una presenza costante che incombe ed aleggia sul mondo dei personaggi bettiani.

 Ed è solamente in quest’ottica che risulta allora chiaro l’atteggiamento di quiete della donna dopo l’accaduto:

Agata (con cupa veemenza) Quante cose che non

puoi sopportare. Fortunamente ci sono io per questo.

              E poi tra poco anche lui si calmerà, perché a un

certo punto, quando le cose sono certe, si ridiventa

tranquilli.

La madre si rivolge alla figlia sconvolta dal corpo in fin di vita dell’uomo nel pozzo con lo scopo di rassicurarla sul fatto che dopo che l’uomo avrà emesso l’ultimo respiro, l’intero ordine verrà ristabilito. Ciò che colpisce in queste parole è l’atteggiamento quiete ed indifferente di Agata; l’atto depradevole della donna sembra essere sfociato nel nulla perche’ ha ormai oltrepassato il punto di non ritorno, la donna rappresenta cosi’ il male che, dopo aver annientato ogni cosa che gli sta intorno, annienta anche se stessa in una fiammata di indifferenza.[9] L’indifferenza porta il suo cuore a mutarsi in deserto arido e vuoto, esattamente come la terra in cui vive, rendendo cosi’ quest’ultima emblema della condizione esistenziale della donna e diviene simbolo di una morte che va oltre quella fisica, quella morte chiamata spirituale dal critico Tuscano nel suo saggio Il senso della vita e della morte nel dramma bettiano ‘Delitto all’isola delle capre’.[10]

 In Religione e teatro, Betti fa delle riflessioni riguardanti il bisogno dell’uomo di assicurarsi determinate speranze nella religione[11] e chiarisce il suo bisogno di rappresentare la vita in un teatro che fosse specchio della realtà, l’autore dunque non mira tanto la propria attenzione tanto sulla religione in sé, ma sul carattere religioso della vita, promuovendo così un’investigazione nella coscienza e nell’interno del suo personaggio. La tragedia di ‘Delitto all’isola delle capre’ si risolve nella rappresentazione del peccato di cui è l’uomo il principale ed unico responsabile; ogni isante che passa aggroviglia la matassa, fonda la responsabilità: ormai non è più uno scherzo. Non si può salvare il giovane, lo si poteva prima[12]:

 

Silvia: Sì. (Un silenzio) Mamma, ho un po’ paura.

Agata: Sai bene che è uno scherzo.

[…]

Silvia: Mamma, non ha più parlato? (Per  la prima volta elle getta un’occhiata verso il pozzo)

[...]

Pia: (entrando e bisbigliando angosciosamente) Non posso più sentirlo! Non dobbiamo tardare, è pericoloso. Buttategli la corda!

Agata: Buttagliela tu.[13]

Pia: io ho paura, sembra feroce, impazzito. Ho paura.

È attraverso queste brevi battute, fatte di pochissimi parole, che lo scrittore trasmette il senso di reponsabilà per la colpa che da semplice ‘scherzo’ diviene un peccato mortale.

 Si può affermare che il cuore dell’intera opera pulsa nella colpevolezza di Agata, dettata come ribadito in precedenza da un istinto di sopravvivenza, nel suo desiderio più oscuro di far morire Angelo; un desiderio questo che risiede nel pozzo più profondo dei sentimenti umani e sarà proprio il pozzo a fare da tomba all’uomo. Sempre Ugo Betti, in Acque turbate, si domanda attorno all’origine del male e del peccato:

              ‘’com’è possibile che io, non avendolo voluto (il male),

debba esserne ugualmente responsabile? [...]

Come è stato permesso che il bene ed il male siano così simili, e ugualmente naturali alle cose?’’[14]

Da queste parole emerge un sentimento di dubbio sul senso intero della vita, sembra quasi che sia la vita a costringere alla colpa, una colpa che incombe sempre come un peccato originale sui personaggi bettiani, un fagotto che essi si portano dietro, come un qualcosa di contratto, ancor prima di essere commesso, quasi fosse una condizione di nascita presente nell’uomo.

Questo stato di colpevolezza assume nella tragedia dell’autore dei tratti di istintività primordiale[15],  qui infatti sono presenti le passioni carnali che dominano l’animo delle tre donne, quasi in uno stato di selvatichezza, le quali sono travolte dalla fremente sensualità di Angelo­; i caratteri della loro persona sembrano simili a quelli degli animali che abitano la loro isola. Ed infatti sono anche le capre un punto cruciale nell’opera bettiana, è infatti a causa loro che il terreno è brullo, non coltivato ed arido poiché esse brucano ogni cosa. La loro presenza nell’opera è misteriosa ed inquietante e anche quando si parla della possibile violenza che sarebbe scaturita dall’uomo, nel caso fosse riuscito ad uscire dal pozzo (Vi mangio il cuore! Vi sbrano![16]), l’immagine delle capre ritona nell’opera. Agata infatti sostiene che la morte di Angelo sarebbe dovuta accadere per ristabilire l’equilibrio e l’ordine che si erano persi, altrimenti l’uomo le avrebbe squartate il pelo come alle capre e le avrebbe sottomesse, a quattro gambe[17]. Questa simbiosi tra l’uomo e l’animale sembra riflettere per alcuni tratti le caratteristiche delle donne: elle vivono sole e bramano nel loro animo l’azione più infima dell’umanità, cioé quella di togliere la vita ad un altro essere, esattamente come le capre distruggono ed annientano tutto ciò che è linfa vitale nel terreno dove risiede l’abitazione delle donne.

A questo punto sorge spontaneo domandarsi quale risultato abbia apportato la ricerca bettiana nella ricerca e nella scoperta dell’animo umano: secondo Sergio Torresani, l’autore vede alla base di ogni errore umano, frammisto alla più perversa volontà, la presenza di una sconsolata desolazione, della miseria, della solitudine e dell’angoscia[18]. Lo scrittore indaga in modo spietato l’animo umano dei suoi personaggi, addentrandosi anche nei loro pensieri più inconfessabili, conducendo così un’inchiesta che ricorda molto quella pirandelliana, ma che si differenzia da quest’ultima per quanto concerne il risvolto delle vicende: Betti fa in modo che il suo personaggio si confessi attraverso uno stato di perenne e tragica sensazione di sgomento che lo accompagna per tutta l’opera, una specie di malinconia esistenziale[19] che si traduce in un dolore implacabile che sovrasta l’uomo, abbandonato in una specie di spazio nero che è la sua esistenza.

Ne risulta una perenne sensazione di angoscia nei personaggi bettiani, la cui esistenza è caratterizzata da un’angoscia perenne, o meglio da un’angosciata solitudine; essi sono soli, individualmente responsabili, nella loro battaglia terrena per la libertà della colpa. De Sanctis, in Betti tra favola e realismo, afferma che le azioni dei personaggi del drammaturgo fanno sì che ognuna di quelle figure abbia la propria crisi, che la fa scendere dal piedistallo[20], esse cioé sono colpite tutte, nessuna esclusa, da una crisi o una colpa, la quale non può che distruggere qualunque forma di eroismo nell’opera teatrale. Si tratta quindi di figure anti-eroiche, quelle predilette dallo scrittore, le quali sembrano gettate nel mondo ed abbandonate al loro destino.

Le figure bettiane sembrano rispecchiare il concetto tanto caro a Schopenhauer della vita intesa come dolore[21] e vivono un’esistenza caratterizzata da un sentimento di sgomento e di angoscia che nasce nel momento in cui l’uomo è consapevole dalla possibilità della libertà. Questa ‘vertigine’, scaturita dalla consapevolezza della libertà di poter scegliere e dunque d agire[22], provoca in Agata la presa di coscienza del fatto che tutto è possibile, ma quando tutto è possibile, è come se nulla fosse possibile; leggendo le poche, ma incisive parole della donna sopracitate [Silvia (tremando): Mamma, tu lo sapevi. Tu potevi  impedirlo. Agata: (come assorta): No, non potevo.], si comprende così il sentimento di angoscia e di consapevolezza avvertito da Agata di non poter fare nulla.

 L’angoscia diviene per i personaggi bettiani un’esperienza intrinseca ed inevitabile nell’esistenza umana, che viene vissuta sotto la terribile ombra di una costante solitudine, rappresentata nell’opera, in primis nella casa in cui vivono le donne, per scelta di Agata, la quale vi si era trasferita la donna per sfuggire al mondo della città:

Agata: Fui io [...] Gli (al marito) proposi... – io avevo un po’ di denaro – gli proposi di lasciare tutto: la città, i compromessi: una rivincita contro il mondo[23].

La solitudine in cui vivono le donne sembra bloccarle dal poter proseguire o prendere azione per le questioni che riguradano la loro esistenza: Silvia vorrebbe ripartire e riprendere gli studi che aveva abbandonato, ma non riesce ad andarsene dalla casa, vorrebbe partire, ma poi ritorna:

Angelo: cioè la nostra cara non partirà: né questa sera né mai. Edoardo viene: e torns via solo, il vecchiaccio. Silvia rimane qui, buona, calma. (Una pausa) Noi quattro[24].

Agata, Silvia e Pia rimangono nella loro solitudine esistenziale, arrivando persino a mutare nel loro aspetto fisico (come nel caso di Pia), per tutta la tragedia, e sarà solo nel momento in cui si sarà consumato l’intero peccato che Silvia e Pia decideranno di fuggire e di abbandonare la casa desolata. Così, dopo la caduta di Angelo, nel suo ultimo disperato tentativo di arrampicarsi per risalire dal pozzo, sarà Agata l’unico personaggio a rimanere nella casa e sulla scena, diventando così emblema di un’esistenza solitaria, ma necessaria, quasi di una colpa da espiare, in attesa della catastrofe finale:

Agata: […] e ora occorre che qualcuno, qui, resti quieto e pensi. È un ingrato compito, lo prendo su di me. (Travolta un attimo) Credete che anche io non tremi? (Vincendosi e bisbigliando) […]. La casa e il pozzo non tarderanno a crollare[25].

Agata decide di rimanere quasi per ricercare il riscatto dal peccato commesso, per espiare la propria colpa. Eppure, quando la donna, decide di lanciare la corda nel pozzo ad Angelo, dopo la partenza di Silvia e Pia, quasi ad essere forse più giusta con l’uomo, abbiamo un atto ‘benevolo’ arrivato ormai troppo tardi e allora viene da domandarsi perché la donna abbia deciso di essere più giusta con un Angelo ormai morto invece che vivo. Forse perché come affermava il francese e saggista e romanziere Albert Camus, verso i morti non ci sono obblighi, ci lasciano liberi e possiamo scegliere noi il momento[26], il momento nel quale intervenire.

Di fronte al disfacimento dell’esistenza umana rappresentata nell’opera bettiana risulta inevitabile ricercare la presenza di Dio nella tragedia umana. Dio diviene presente negli scritti dell’autore, ma non si tratta di un principio operante nella vita umana; egli osserva da lontano la tragedia umana e non interviene, abbandonando così l’uomo (nel nostro caso il personaggio di Agata) a se stesso, al caos che è l’esistenza, e portando quest’ultimo a ristabilire l’ordine.

Si tratta di un Dio, quello bettiano, che arriva dopo il disfacimento dell’uomo che non previene i flagelli che colpiscono l’esistenza umana, un Dio che, secondo Giorgio Fontanelli, arriva dove ormai è deserto[27]. La Provvidenza divina fa sempre da sfondo all’opera bettiana; Dio, seppur in silenzio, è presente:

Angelo: […] Nasce il peccato, è vero; ribolle il nero lievito della terra. Io stesso sono un grandissimo peccatore, il nero lievito della terra mi chiama verso la donna più e più volte in un solo giorno; [...] è stato prorpio, l’Ente creatore a creare il mondo della materia per compiacere l’anima eterna, la quale voleva desiderare e amare, e le occoreva un oggetto. E il peccato, che è? Il mezzo con cui viene saziato e così vinto, quest’innamorameno dell’anima. [...] Ma questo è certo: che la nostra salvezza è nel peccato[28].

Angelo, un nome questo non causale, quello scelto dal dramamturgo, ricorda la figura del diavolo, l’angelo decaduto dalle sfere celesti per aver voluto equipararsi a Dio. L’uomo dialoga con le donne per quanto riguarda il concetto del peccato e afferma che è in esso che risiede la salvezza, ed è in questo passo che appare quel barlume di luce che Ugo Betti lascia ai suoi personaggi, essi, cioé, possono sperare in una salvezza ultraterrena che derivi dall’espiazione del peccato commesso sulla terra, apportando così una via d’uscita, una salvezza[29], a quelle figure tanto tormentate. Non a caso il critico Pasquale Tuscano afferma che il pozzo è il quinto personaggio dell’opera, una figura muta ed emblematica, presente sempre sulla scena come un personaggio fisso[30]; esso sarà il motivo salvifico del destino della donna, in esso risiede il peccato di Agata di aver lasciato morire Angelo e in esso risiede la salvezza e la catarsi della donna.

Dunque, l’opera bettiana non è che la rappresentazione della tragedia umana, intesa come derivante dal conflitto interiore tra l’essenza esteriore e quella interiore dell’uomo. Nell’uomo risulta risiedere così quella che è per lo scrittore la vera tragedia della libertà: il Male, in quanto inteso come atto di libera scelta e di fronte al quale il Dio bettiano rimane in silenzio.

Inevitabile così è stato il rimando alla colpevolezza umana, la quale viene descritta, nell’opera dello scrittore, come una condanna che incombe su tutti i personaggi bettiani, nessuno escluso, fino a sfociare in tratti distruttori e animaleschi, eattamente come quelli caratterizzanti le capre, da qui risulta più che mai giustificata la scelta del drammaturgo di porre nel titolo dell’opera, quasi come protagoniste, le capre.

 

 

 

[1] Vedi Sergio Torresani, Il teatro italiano negli ultimi vent’anni (1945-1965), Gianni Mangiarotti Editore, Cremona, 1965, p. 59; Ruggero Jacobbi, La ‘pagina teatrale’ di Ugo Betti, in Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1981, p. 55

[2] Gian Battista De Sanctis, Senso della crisi in Ugo Betti, in Studi sul teatro, Edizioni A. Longo, Ravenna, 1968, p. 233.

[3]  Cfr, Sergio Torresani, Op. Cit, p. 59.

[4]  Carla Apollonio, La proposta drammaturgica del teatro di Ugo Betti, in Ugo Betti, Istituto di studi pirandelliani, Bulzoni Editore, Roma, 1982, p. 17

[5] Ugo Betti, Delitto all’isola delle capre, Cappelli Editore, Bologna, 1957, scena seconda, p. 1212.

[6] Gaetana Marrone, La sfida del giocatore bettiano: morale, divinità, mistero, Annuali d’italianistica, Vol. 25, 2014, p. 326.

[7]  Davide Orlandi, Il male in Dostoevskij, p. 32, consultato il 05 settembre 2022. https://www.pensierofilosofico.it/articolo/Il-male-in-Dostoevskij/190/

[8] Sergio Torresani, op. cit., p. 88.

[9]Cfr, Davide Orlandi, op. cit., p. 14.

[10] Pasquale Tuscano, Il senso della vita e della morte nel dramma bettiano ‘Delitto all’isola delle capre’, in Ugo Betti, op. cit., p. 106.

[11] Cfr, Gaetana Marrone, op. cit., p. 1.

[12]  Giovanni Battista De Sanctis, Betti tra favola e realismo, in Studi sul teatro, Op. cit., p. 251.

[13]Ugo Betti, Op. cit., scena seconda, pp.1205-1208.

[14] Elisa Ciofini, La regale ingiustizia, ovvero il teatro di Ugo Betti, Il rifugio dell’ircocervo, consultato il 03 settembre 2022.  https://ilrifugiodellircocervo.com/2021/07/02/la-regale-ingiustizia-ovvero-il-teatro-di-ugo-betti/

[15] Sergio Torresani, op. cit., p. 86.

[16] Ugo Betti, Op. cit., scena seconda,  p. 2110.

[17] Cfr, Ivi, scena seconda,  p.p. 1211-1212.

[18] Sergio Torresani, op. cit., p. 58

[19]  Gaetana Marrone, Poesia Domus Mundi in Ugo Betti, Sage Journals, Vol. 43, consultato il 28 settembre 2022. https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/001458580904300104p. 83

[20]  Giovanni Battista De Sanctis, op. cit., p. 35.

[21] Gianluca Mariotti, La crisi delle certezze dell’uomo tra il 1800-1900, p. 4, consultato il 24 settembre 2022. http://didattica1.weebly.com/uploads/1/9/1/7/19170051/g_mariotti.pdf

[22] Cfr, Kirkegaard S., Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, Sansoni Editore, Firenze,1965, p. 179.

[23] Ugo Betti, Op. cit., scena quarta, p. 1173.

[24]  Ivi, scena settima, p. 1199-1200

[25] Ivi, atto III, scena seconda, p.1212.

[26]  Fabio Ciriachi, Considerazioni di un nauseato, in Esistenzialismo (Kasparhauser), n. 7, 2014, p. 65.

[27]  Giorgio Fontanelli, Il teatro di Ugo Betti,  Bulzoni Editore, Roma, 1985, p. 90.

[28] Ugo Betti, op. cit., scena terza, p. 1170.

[29]  Carla Apollonio, op. cit., p. 23.

[30]  Pasquale Tuscano, op. cit., p. 106.

  • - Antonucci G., La fortuna scenica del teato di Betti, in Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1981.

    -Apollonio C., La proposta drammaturgica del teatro di Ugo Betti, in Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1981.

    - Berra L., Angoscia esistenziale, Isfipp Edizioni, Torino, 2017.

     - Betti U., Delitto all’isola delle capre, Cappelli Editore, Bologna, 1957.

    - Bo C., Ugo Betti: vent’anni dopo, in Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1981.

    - Ciriachi F., Considerazioni di un nauseato, in Esistenzialismo (Kasparhauser), n. 7, 2014, p. 65.

    - De Sanctis G. B., Senso della crisi in Ugo Betti, Edizioni A. Longo, Ravenna, 1968.

    - De Sanctis G. B., Betti tra favola e realismo, Edizioni A. Longo, Ravenna, 1968.

    - Fava Guzzetta L. F., Introduzione, in Ugo Betti, Novelle edite e rare, a cura di Alfredo Luzi, Fossombrone, Metauro, 2001.

    - Fontanelli G., Il teatro di Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1985.

    - Jacobbi R., La ‘pagina teatrale’ di Ugo Betti, in Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1981.

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    - Marrone G., La sfida del giocatore bettiano: morale, divinità, mistero, Annuali d’italianistica, Vol. 25, 2014.

    - Musarra F., Impegno e astrazione nell' opera di Ugo Betti, L'Aquila, Iapadre, 1974.

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    - Torresani S., Ugo Betti, Il teatro italiano negli ultimi vent’anni (1945-1965), Gianni Mangiarotti Editore, Cremona, 1965.

    - Tuscano P., Il senso della vita e della morte nel dramma bettiano ‘Delitto all’isola delle capre’, in Ugo Betti, Bulzoni Editore, Roma, 1981.

     

    Sitografia

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    https://ilrifugiodellircocervo.com/2021/07/02/la-regale-ingiustizia-ovvero-il-teatro-di-ugo-betti/

    • De Sio A., Vite degli oscuri: Diego Fabbri ed Ugo Betti, nel blog “L’Intellettuale dissidente”, 24 marzo 2019, https://bit.ly/37Q6D2e

     

     

     

    • Mariotti G., La crisi delle certezze dell’uomo tra il 1800-1900, consultato il 24 settembre 2022.

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    • Marrone G., Poesia Domus Mundi in Ugo Betti, Sage Journals, Vol. 43

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    • Orlandi D., Il male in Dostoevskij-

    https://www.pensierofilosofico.it/articolo/Il-male-in-Dostoevskij/190/

    • Riccio B., L’umiltà del male: l’uomo rifiuta la libertà

    https://www.glistatigenerali.com/letteratura/lumilta-del-male-luomo-rifiuta-la-liberta/