Dante e il paradosso femminile nell’immaginario medievale

Document Type : Original papers

Author

Lecturer of Italian Literature Department of Italian Language School of Linguistics, Badr University in Cairo

Abstract

This study analyzes the position of the father of the Italian language, Dante Alighieri, towards the ambivalence of the female figure, produced by the medieval imagination. The purpose of this writing is to show the paradox that enveloped this figure in the course of the Dark Ages and of which Dante himself is an emblem, through a study that, in addition to framing the context of the time, goes from the ‘Dolcestilnovo’ to the ‘stony rhymes’. The Middle Ages is par excellence the century of the predominance of religion over reason, yet it is at this point that the theological paradox that surrounds the figure of woman appears: to which female model does the medieval world refer, that of Mary or Eve? Is the Virgin, the one who intercedes for mankind before the Creator, the representation of the medieval woman or Eve, the one who first violated God's law? The Italian writer himself represents this paradox both in the ‘stony rhymes’ (anticipating the figure of the femme fatale of nineteenth-century literature) as well as in the various female figures inserted in Hell, and in the angelic figure of Beatrice. Therefore, if on the one hand the world of medieval literature presents the angelic features of the female figure, on the other it condemns this same figure in as many literary and artistic representations, up to blossom in repressive attitudes that culminate in the sad historical chapter of the court of Inquisition.

Keywords

Main Subjects


Le vicende dell’amore costituiscono un tema di grande rilevanza antropologica e di lunga durata. Nell’immaginario medievale, rinascimentale e dei secoli successivi, l’amore si identifica con il tema della donna. Non solo, ma la figura femminile diventa luogo di proiezione simbolica di molteplici significati filosofici, etico-religiosi e sociali.

            Il Medioevo è per antonomasia il secolo del predominio della religione sulla ragione, eppure è in questo punto che appare il paradosso teologico che avvolge la figura della donna: a quale modello femminile si rifà il mondo medievale, quello di Maria o di Eva? La Vergine, colei che intercede per il genere umano davanti al Creatore, è la raffigurazione della donna medievale o Eva, colei che per prima violò la legge di Dio?

In un dialogo imamginario, contenuto nel Tractatus quaestionis ventilatae coram domino nostro Iesu Christo inter Virginem Mariam ex una parte, et diabolum ex altera parte attribuito, il giurista, qualunque sia la sua identità, immagina lo svolgimento di un processo civile, avviato dall’azione del diavolo che – testimoni Maometto e Cerbero – chiede la restituzione del genere umano: un’umanità che affida la sua difesa, di fronte a Cristo Giudice, alla Vergine Maria. Tuttavia questa sua capacità di assumere il ruolo di avvocata e difensore, in quanto donna, viene eccepita e contrastata da Satana il quale sostiene il suo punto di vista proprio sulla base delle fonti normative tratte dal Decreto di Graziano[1](contenente decisioni sia in materia giuridica sia in materia teologica) , nel quale si affermava la debolezza e la conseguente inferiorirà della donna in quanto fu la prima a cedere alla tentazione del serpente.

L’identità femminile per tutto il corso dei secoli bui rimane così sempre in bilico tra Eva e Maria, nonostante, infatti, da un lato la Chiesa proclami l’uguaglianza tra gli uomini (intesi con genere umano e non come differenziazione tra i sessi) e veda nella figura di Maria l’unica porta di accesso alla grazia divina, dall’altro troviamo perennemente una condanna che sembra pesare senza lasciare spazio ad alcuna forma di riscatto per la donna, alla quale non resta che soggiacere al ruolo di dominus maschile.

Questa ambivalenza presente nel pensiero medievale appare nel  pensiero teologico ed intellettuale dell’epoca, attraverso raffigurazioni artistiche e letterarie che divengono emblemi e portatori di tale paradosso: trovano nella figura della donna, e di conseguenza nel suo rapporto con il diavolo, il capro espiatorio a tutti i mali che affliggevano l’epoca. Tutto ciò per cui non si trovava un’immediata spiegazione, infatti, era colpa della subdola tentazione del diavolo e di chiunque si fosse alleato con esso; e da questo avrà origine un altro concetto che sarà tanto caro alla letteratura ottocentesca del Dottor Faust: il patto con il diavolo che porta l’uomo ad una dannazione che esclude il raggiungimento della pace eterna.

Tornando allo stretto rapporto esistente tra donna e diavolo nell’immaginario medievale, tale pensiero iniziò a diffondersi in modo così articolato al punto che molti quadri dell’epoca, tra cui il celebre dipinto di Niccolò di Tommaso, intitolato ‘Tentazione di Adamo ed Eva’ (eseguito nella seconda metà del XIV secolo e conservato a Pistoia), dipingono il serpente con le sembianze femminili di una fanciulla. O ancora nel quadro di Giotto, ‘Giudizio Universalè (eseguito tra il 1304 e il 1306 e conservato a Padova, nella Cappella degli Scrovegni), dove ritroviamo riprodotta una movimentata scena infernale, in cui i diavoli armati di seghe, rastrelli e bastoni si accaniscono unicamente contro dei corpi femminili, tanto concreti quanto sensuali.

Niccolò di Tommaso,‘Tentazione di Adamo ed Evà (seconda metà del XIV secolo, Pistoia)

 

 

Giotto, ‘Giudizio Universalè (tra il 1304 e il 1306, Cappella degli Scrovegni, Padova)

 

In aggiunta a ciò, la nascita del monachesimo nei primi secoli dopo l’anno Mille in Europa, alimentò ancor di più l’ossessione per i peccati carnali, di cui Eva fu la causa primaria.

Il giurista cartaginese Tertulliano[2], rifacendosi agli scritti paolini, accusa la donna di aver violato per prima la legge di Dio, per questo essa deve necessariamente sentirsi addosso il peso della colpa per aver gettato l'intero genere umano nel peccato. La donna è descritta come una porta attraverso la quale accedere a Satana e in quest’ottica sembra chiaro come, in pieno Trecento, Raimondo da Capua, appartenente alla famiglia di Pier delle Vigne19 (quest’ultimo inserito nella selva dei suicidi nel XIII canto dell’Inferno), intriso della cultura medievale e teologica dell’epoca, abbia potuto provare perplessità di fronte alla grandiosità delle opere letterarie e alla condotta religiosa di Caterina da Siena (1347-1380). Egli stesso infatti affermò questo a riguardo della donna:

“Cercavo tutti i mezzi e tutte le vie per accertarmi se il suo modo di fare

procedeva da Dio o no: se c’era della sincerità, o della finzione… Le donne,

perdendo facilmente la testa, cadono con molta facilità negli inganni del

nemico, come avvenne alla prima madre di tutti..”[3]

Dunque ancora una volta, la figura femminile sembra non potersi riscattare ed uscire dal ventre della “mater grandeua omnium nostrorum”, nel quale rimane imprigionata. E questa prigione in cui è rinchiusa sembra essere la giusta sentenza che i teologi e i dotti dell’epoca hanno emanato per poter ricreare un ordine sociale che altrimenti andrebbe perduto.

La questione del paradosso della figura femminile però non si limita solo alla contrapposizione dell’immagine di Eva, facilmente ingannabile da Satana, con quella di Maria, la Santa Vergine che prega incessantemente per la salvezza del genere umano. La cultura medievale infatti arriva a vedere il corpo femminile come instrumentum del diavolo e fu proprio da questo snodo che iniziò ad aprirsi il triste capitolo della caccia alle streghe.

Si iniziò a pensare che alcune donne offrivano volontariamente il proprio corpo al diavolo e con lui stringevano un patto scellerato, qualificandosi così inequivocabilmente e pericolosamente come streghe; ed è proprio con lascita di questo pensiero che le streghe passarono dall’essere criminali, al pari di ladri e assassini, all’essere «eretici e apostati, individui intrinsecamente malvagi che avevano rifiutato la fede cristiana e deciso di servire il nemico di Dio»[4]. In tal maniera, veniva a crearsi «uno stereotipo dell’eretico come di un adoratore, segreto, notturno, sessualmente promiscuo del Diavolo», contro cui l’intera società medievale si scaglierà con tutta la propria forza nel corso dei secoli.

In questo modo, nell’immaginario medievale inizia a farsi strada l’idea che il diavolo possedeva altri poteri che non si estendevano solo all’Inferno, ma anche sulla Terra, dove «mossi dalla vanità o dall’odio, maghi, stregoni e streghe si mettevano al suo servizio, attendendo difesa e protezione in cambio del totale dono di sé».[5] Si credeva che le streghe, offrendosi totalmente al diavolo, contraevano con esso un patto di devozione e sottomissione dal quale ottenevano però un immenso potere da cui generavano i loro malefici.

Di questa nuova immagine, derivante dal topos medievale della colpevolezza della donna della caduta del genere umano, Dante ne parla nel XX  cerchio infernale, dove sono puniti gli indovini e i maghi.

La strega si ritrova punita, a fianco degli indovini, nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio. All’arrivo in questo cerchio, il poeta viene colpito profondamente dalla condizione delle anime di indovini e streghe, che subiscono la medesima pena: esse camminano a ritroso, piangendo in silenzio, «con il corpo travolto»[6] di modo che la testa sia rivolta all’indietro, facendo «petto de le spalle».[7] Ovviamente la costrizione di poter guardare solo indietro è il chiaro contrappasso per chi, come maghi e indovini, volle vedere troppo in là, tentando di prevedere il futuro. L’immagine dell’uomo, così distorta e snaturata dal reale sembiante, tanto da umiliare l’essere umano togliendogli la propria dignità, provoca un triste pianto in Dante che vede rappresentata in tale pena fisica la condizione simbolica di tutto l’Inferno. Virgilio, notando il pianto del proprio compagno, lo riprende per l’eccessiva pietà dimostrata nei confronti di questi peccatori e inizia a presentargli le anime che procedono in processione di fronte ai loro sguardi: apre le fila il mitico re di Argo Anfiarao, seguito dal celebre indovino Tiresia e da Arunte. Vi è poi una lunga digressione su Manto, figlia di Tiresia, maga tebana fondatrice della città di Virgilio: Mantova.

 Il poeta latino narra a Dante che Manto, giunta in Italia alla ricerca di un luogo isolato in cui stabilirsi per fuggire ad ogni contatto umano, decise d’insediarsi lungo il Mincio, nel mezzo di una palude secca ed arida e senza abitanti. Una volta sicura di essere isolata e lontana da sguardi indiscreti, iniziò quindi a praticare le arti magiche e lì rimase fino alla sua morte, protetta e riparata naturalmente dal fiume. Dopo la sua dipartita, gli uomini nelle vicinanze decisero di stanziarvisi al suo posto, sfruttando le difese naturali della palude e vi fondarono una città, dandole il nome di colei che per prima vi aveva abitato. 

Dunque pare evidente che la donna è senza ombra di dubbio rappresentabile come strega: cerca luoghi isolati, addirittura poco confortevoli o adatti alla vita umana, in cui stanziare, pratica arti magiche nascondendosi dagli altri individui e viene definita da Dante “vergine cruda”. Proprio tale definizione pare essere un indizio della natura stregonesca della donna. Infatti indicando la donna come “vergine”, Dante si richiama a una qualità che si credeva propria delle maghe; non di rado infatti, nell’antichità le sacerdotesse e le fanciulle dedite al culto di Artemide (poi Diana nella cultura romana), dea vergine della caccia, praticavano la castità.

Dopo questa breve parentesi, Dante giunge finalmente alla terzina sulle streghe: 

Vedi le triste che lasciaron l’ago, 

la spuola e ʼl fuso, e fecersi ʼndivine; fecer malie con erbe e con imago. 

Nella processione di queste anime, dunque, si accompagnano anche le empie donne che lasciarono i loro compiti femminili, rappresentati dagli attrezzi della filatura, pratica prettamente riservata alle donne, per dedicarsi, invece, alle arti magiche e divinatorie. 

Il motivo per cui Dante dedica una breve sequenza a questa figura femminile della strega è a mio parere un punto di discussione molto ampio. Alcuni critici infatti ritengono che lo scrittore non si sia dilungato in questo passo e non abbia specificato il rapporto diretto tra donna-strega e diavolo, poichè la bolla papale che riconoscerà la stregoneria come nuova eresia giungerà solamente nel 1326[8]. Tuttavia, come si è dimostrato inizialmente, la figura femminile fu caratterizzata da questo stretto rapporto con il diavolo anche prima dell’emanazione della condanna per stregoneria, dunque era chiara agli uomini dell’epoca, ed inevitabilmente anche allo scrittore italiano, la colpevolezza di Eva e di conseguenza della figura femminile in sè. Ritengo che forse, il voler dedicare una terzina a queste figure femminili nell’Inferno dantesco, potrebbe forse essere una volontà dell’autore di discostarsi, in misura minima, dal pensiero comune di colpevolezza della donna.

Dico in misura minima, non a causa dell’immagine di Beatrice che il poeta ha ricreato nelle sue opere stilnovstiche e nella Divina Commedia e nemmeno  a causa dell’immagine della Vergine Maria dantesca, la forza motrice che spingerà Virgilio ad intraprendere il viaggio con Dante e porgerà la sua preghiera a Dio per la salvezza del poeta, ma perchè lo scrittore è egli stesso emblema del paradosso della figura femminile medievale: da una lato abbiamo Beatrice e la Santa Vergine, ma dall’altro (anche se solo in quattro componimenti) abbiamo la figura di ‘’petra’ nelle Rime petrose. 

Tale definizione (rime petrose) appartiene ai commentatori, e fa riferimento all'amore dell'autore per una petra che compare in quattro componimenti affini per poetica e per argomento. La composizione risale, secondo indicazioni dello stesso Dante, ai mesi che seguono il dicembre 1296.

Ispiratrice è una donna sensuale e crudele, indifferente all’amore del poeta e anzi lieta solo di conquistarlo con il proprio fascino; il termine chiave ‘petrà è probabilmente senhal[9] allusivo alla durezza della donna, benchè non sia da escludere che possa trattarsi di nome proprio

Alla violenza della passione e alla ostinata crudezza dell’amata corrisponde uno stile violentemente realistico, irto di dati concreti e persino brutali[10]. Coerente con il clima di esasperazione formale (e psicologica) è il corso a suoni aspri e duri.

Così nel mio parlar voglio esser asprò è uno dei quattro componimenti in cui appare la posizione del poeta verso la donna. Le immagini e lo stile qui presenti definiscono una materia e una disposizione psicologica violente ed esasperate. Nella parte iniziale del componimento, domina nel poeta la consapevolezza che la donna è invulnerabile all’amore; successivamente il poeta ha come un proposito di vendetta ed infine ci viene presentato il desiderio dello scrittore nei confronti di tale figura. Il sogno del poeta però non è di realizzare i propri desideri, ma di rovesciare le posizioni e veder soffrire la donna. Egli sogna di aggredire fisicamente la donna, esattamente nelle parti che avevano tanto lodato gli stilnovisti: gli occhi. È come se fosse avvenuto un vero e proprio effetto di profanazione di quegli elementi della figura femminile tanto cari all’amor cortese.

S’io avessi le belle trecce prese,

che fatte son per me scudiscio e ferza,

pigliandole anzi terza,

con esse passerei vespero e squille:

e non sarei pietoso né cortese,

anzi farei com’orso quando scherza;

e se Amor me ne sferza,

io mi vendicherei di più di mille.

Ancor ne li occhi, ond’escon le faville

che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,

guarderei presso e fiso,

per vendicar lo fuggir che mi face;

e poi le renderei con amor pace.

(Così el mio parlar voglio esser aspro Così el mio parlar voglio esser aspro, vv. 66-79.)

Dunque siamo ben lontani dalla figura dell’angelica Beatrice delle rime stilnovistiche e della Santa Vergine del Paradiso della Commedia.

La descrizione di Petra assume connotazioni negative, simili a quelle che hanno avvolto la figura di Eva: una donna che merita asprezza e durezza (per riprendere i termini usati dal poeta nel titolo del componimento) perchè colpevole di aver dannato il poeta con una forma d’amore tanto lontana da quello cortese, al punto da spingerlo a colpirla; e di nuovo una volta, il topos di Eva, la causa prima del caduta del genere umano, si ripresenta.

Osservando più attentamente il componimento si noterà una lieve somiglianza, o meglio un’anticipazione di quella che sarà una delle protagoniste della letteratura di fine Ottocento: la femme fatale.

In realtà il modello di femminilità malvagia ha radici antiche: da Lilith, il demone ebraico divoratore di bambini, a Circe e Medea, donne sensuali e letali, della letteratura classica. L’archetipo della donna malvagia, dopo essere passato attraverso fiabe e trattati giuridici, giunge alla fine dell’Ottocento in una nuova veste. Seducente, ammaliante, caratterizzata da una bellezza tanto intrigante quanto inquietante: è così che appare la donna fatale del XIX secolo.

L’immagine della femme fatale viene presentata come figura negativa di fronte alla quale l’uomo finisce spesso per soccombere, esattamente come il poeta fiorentino nelle rime petrose. Essa è presentata come una bella donna senza pietà, dai lunghi capelli e dagli occhi profondi (ancora una volta si ripresenta il topos dell’amor cortese dei capelli e degli occhi, ma con un pieno rovesciamento, come quello avvenuto in ‘Così nel mio parlar voglio esser asprò).

Il critico Osvaldo Duilio Rossi  definisce la figura della donna fatale come «affascinante e seduttrice, lussuriosa e dissanguatrice di uomini».[11] E queste parole tanto care alla poetica del Decadentismo, in particolar modo alla figura dell’Elena dannunziana de ‘Il piacerè (1889), non possono che rimandare all’immagine di Eva, colei che si fece sedurre dal serpente, e sedusse a sua volta Adamo, portando l’intera umanità alla dannazione.  

Dunque il paradosso della figura femminile, tipico dell’epoca medievale, si presenta nel contrapporre la petra delle rime petrose a Beatrice, appartenente alla ben nota produzione stilnovistica dello scrittore.

Tuttavia tale attegguiamento di asprezza da parte del poeta, non si presenta nei confronti di Francesca da Paolenta (inserita, insieme a Paolo Malatesta, nel quinto canto dell’Inferno, nel cerchio dei lussuriosi), che nonostante fosse una figura infernale, suscita nello scrittore sentimenti di pietà e di compassione, ben lontani da quelli suscitati nel componimento petroso.

Ascoltando la triste storia dei due innamorati, in cui s’immedesima con tutte le sue fibre, Dante sviene poichè ha il coraggio di condannare e forse proprio per questo suo di comprensione verso quell’amore che decide di non condannare le due anime alla separazione eterna, ma le pone l’una abbracciata all’altra, anche se travolti incessantemente dalla bufera.

La poesia di Dante, per paradosso, è tanto lontanta dall’asprezza dimostra nei confornti di petra, e per un momento sembra di essersi allontanati dal clima infernale. Si susseguono molti vocaboli che fanno rivivere la dolcezza di quell’incontro d’amore tra Paolo e Francesca: i “dolci pensier”, il tenero “disìo”, i “dubbiosi disiri”, i “dolci sospiri”, gli “sguardi innamorati”. D’altronde è proprio nel contrasto fra la dolcezza di quegli attimi felici e la durezza della pena inesorabile ed eterna che sta il doloroso dramma dei due amanti: “nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria”, afferma Francesca. [12]

Si può affermare che il riscatto che ebbe la figura femminile nel Medioevo inziò con la nascita della letteratura dell’amor cortese, il quale anche in questo caso si intrecciò con le vicende politiche e teologiche che riguardarono la Chiesa medievale. Si osservi il caso del catarismo e della sua conseguente influenza sulla letteratura provenzale.

I catari, appartenenti al catarismo, condannavano ogni atto della carne, e preferivano l'amore spirituale a discapito di quello fisico. Tale movimento dei catari attecchì soprattutto nel sudovest della Francia, nei domini dei conti di Tolosa, in particolare nella regione di Albi, per questo motivo, i catari sono conosciuti anche con il nome di albigesi. Essi inoltre basavano la loro dottrina religiosa basata sull'opposizione del bene e del male. Questa dualità viene rappresentata dal corpo, che incarna il Male, e dall'anima che, invece, purificandosi attraverso una serie di reincarnazioni e di rigida osservanza delle regole della vita catara, è capace di raggiungere il Bene, senza dunque far riferimento all’origine del Male, in quanto conseguenza dell’atto di Eva. La crociata albigese bandita da papa Innocenzo III portò alla cosiddetta diaspora trobadorica: molti trovatori fuggirono e vennero accolti in altre corti, soprattutto nei comuni liberi e nelle corti ghibelline dell'Italia settentrionale, dove i poeti ebbero la possibilità di esercitare la loro arte. Ciò generò la fioritura di una lirica italiana che imitava quella provenzale, in varie zone della penisola, in modo particolare nella Sicilia di Federico II, e la nascita di numerosi ateliers che si specializzarono nella produzione di raccolte di poesie trobadoriche[13].

Un altro elemento che portò al riscatto dell’immagine femminile fu l’avvento della cavalleria, grazie al quale si diffonde nella Chiesa, e diventa popolarissimo, il culto di Maria. Inizia inoltre a subentrare l’immagine della figura femminile creata dall’aristocrazia e il rapporto di amore si modella secondo il codice del vassallaggio feudale.

La nuova letteratura laica in volgare nasce come letteratura d’amore e mette in crisi l’egemonia del clero sulla cultura. Lo dimostra la teoria dell’amor cortese, dove l’amore da passione negativa diventa fonte di nobilitazione e di virtù. Andrea Cappellano definisce un codice di comportamento in cui il rapporto innamorato-donna riflette quello feudale fra vassallo e signore (sevitium-privilegium) ed infine si afferma l’esistenza di uno stretto rapporto fra gentilezza e amore: la gentilezza, cioè la purezza e la nobiltà di costumi e di sentimenti, non dipende dalla nobiltà di sangue, ma dalla nobiltà d’animo e si associa al bisogno di amore[14].

Ed in tutto questo non può che inserirsi la poetica stilnovistica di Dante, eppure non si tratta di una posizione identica a quella dell’amor cortese e dolcestilnovista contemporaneo all’autore.

Già dalla Vita Nova, Dante mostra una posizione originale all’interno dello schieramento stilnovista. Egli riusa gli insegnamenti dei maestri costruendo però una nuova poetica: al centro dell’attenzione non sta più la descrizione degli effetti dell’amore sull’interiorità del poeta, ma la rappresentazione della donna amata, le cui lodi costutuiscono il primo scopo della scrittura. Inoltre l’immagine della donna-angelo assume un senso proproamente teologico: Beatrice è colei che dà beatitudine, il tramite fra il mondo terreno e la verità divina.

 Nella Divina Commedia, Beatrice ha una funzione attiva di primo piano. Apre il poema scendendo all’Inferno per invocare il soccorso di Virgilio. Ha ancora gli attributi della bellezza stilnovistica (‘’lucevan gli occhi suoi più che la stella), ma il suo ruolo è cambiato. La funzione salvifica non è più effetto immediato della sua apaprizione; la donna non è oggetto passivo di amore e dunque figura statica, ma figura in movimento, è personaggio che ama e che agisce:

’Amor mi mosse, che mi fa parlare’.

La donna non è più un semplice stimolo a un processo di nobilitazione interiore, ma assume nella Commedia una funzione dottrinaria, ella infatti spiega al poeta l’ordine provvidenziale dell’universo.

Al termine del viaggio, alle soglie della visione divina, Dante ricapitola il ruolo svolto dall’amata nel suo cammino da ‘servò a uomo ‘liberò dal peccato e così si esprime in un commosso ringraziamento finale, suggellato da un ultimo, amoroso sguardo di Beatrice:

‘’Tu m’hai di servo tratto a libertate

Per tutte quelle vie, per tutt’i modi

Che di ciò fare avei la potestate.

La tua magnificenza in me custodi,

Sì che l’anima mia, che fatt’hai sana,

Piacente a te dal corpo si disnodì’.

Così orai; e quella, sì lontana

Come parea, sorrise e riguardommi,

Poi si tornò all’etterna fontana.

(Par. XXXI, 85-93) 

Tuttavia la produzione delle rime petrose è succesiva a quella delle rime stilnovistiche e quindi pare improbabile che un cambio rotta da parte dell’autore, in cui si sostituirebbe ad un’immagine colpevole come quella di petra, derivante per alcuni tratti da quella di Eva, un’immagine angelice  e beata di Beatrice.

Sulla scia dell’imamgine femminile, che sembra ben lontana da quella dell’Eva medievale o della petra delle rime petrose, appare l’immagine della Vergine Maria, la quale vede il poeta in pericolo e interviene con rapida sollecitudine (If II) poichè spinta dalla compassione materna, interviene a chiedere la grazia al Signore, per aiutare Dante. 

E difatti è questo il ruolo che agli occhi del poeta ricopre Maria: alla Vergine Maria Dante rivolge una splendida preghiera, che mette in bocca a Bernardo di Chiaravalle alla fine del viaggio (Pd XXXIII, 1-39), in cui il santo chiede a Lei che interceda presso Dio affinché il poeta abbia la visione mistica di Lui. Ed Essa ottiene la grazia.

Per concludere, il paradosso della figura femminile esistente nell’immaginario medievale non può dirsi risolto nella letteratura dantesca, anzi è lo scrittore stesso a farsi portatore e specchio di tale ambivalenza, caratterizzante l'imamgine della dona nel Medioevo.

 

 



[1] cfr. D. Quaglioni., La Vergine e il diavolo. Letteratura e diritto, letteratura come diritto, in Laboratoire italien. Politique et societé 5, Open Edition Journal, Université de Lion, 2005, pp. 39-55.

[2] Quinto S. Tertulliano, L'eleganza delle donne. De cultu femianrum, a cura di Sandra Isetta, Bologna, EDB, 1986 in Hannah Bianca Schiavano, L’Io Femminile nella Letteratura Romanza Medievale, (Tesi di laurea), Pisa, 2015-2016, Fabrizio Cigni, Maria Grazia Capusso, p. 10.

[3] G. Minucci, La donna giudice, Innocenzo III e il sistema del diritto commune, Universidad Católica di Murcia, il 15 dicembre 2016, in occasione della “II International Conference: Justice, Mercy and Law. From Revenge to Forgiveness in the History of Law”, organizzata dalla “Cátedra Internacional conjunta Inocencio III”, pp. 85-86.

[4] Brian P. Levack, La caccia alle streghe, trad. it. di Alberto Rossatti e Sandro Liberatore, Bari, Laterza, 1993 (London 1987), p. 11.

[5] C. Arnould, La stregoneria. Storia di una follia profondamente umana, trad. it. di Vito Carrasi, Bari, Edizioni Dedalo, 2011 (Paris 1992), p. 35.

[6] D. Alighieri, Inferno, commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Oscar Mondadori, 2013, Introduzione al canto xx, p. 593.

[7] Ivi, canto xx, v. 37, p. 604.

[8] Di Gesaro P., Streghe, Bolzano, Praxis 3 Editore, 1988, pp. 6-7.

[9] https://www.treccani.it/vocabolario/senhal/. Senhal: senhal ‹sen’àl› s. m., provenz. [lo stesso etimo dell’ital. segnale]. – Il nome fittizio con cui nella poesia provenzale era designata la persona, spec. la dama, di cui il trovatore trattava, o quella a cui la lirica era indirizzata. Nel linguaggio critico e filologico, si indicano col termine provenzale anche i nomi fittizî usati da poeti italiani sull’esempio provenzale.

[10] R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, Medioevo e Rinascimento (dalle origini al 1610), Palumbo Editore, Palermo, 2007, p. 123.

[11] O. D. Rossi, Femmes Fatales, seduzione letale e mito meduseo, in «Gorgonα, rivista di cultura polimorfa», novembre 2009, p. 20.

[12] Cfr, F. Cavalli, La Figura Femminile Nella Divina Commédia di Dante Alighieri, Revista de Letras, Vol. 7 (1965), pp. 121-134.

[13]  H. B. Schiavano, Op. Cit., p. 25

[14] R. Antonelli, M.S. Sapegno, Il senso e le forme. Le origini e il Duecento, La Nuova Italia, Venezia, 2011, p. 1.

Alighieri D., Inferno, Oscar Mondadori, Milano, ss2013
Antonelli R., Sapegno M. S., Il senso e le forme. Le origini e il Duecento, La Nuova Italia, Venezia, 2011
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Cavalli  F., La Figura Femminile Nella Divina Commédia di Dante Alighieri, Revista de Letras, Vol. 7, 1965.
Di Gesaro  P., Streghe, Bolzano, Praxis 3 Editore, 1988.
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 Schiavano H. B., L’Io Femminile nella Letteratura Romanza Medievale, (Tesi di laurea), Pisa, 2015-2016, Fabrizio Cigni, Maria Grazia Capusso.
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