Dante arabo : direzioni di indagine

Document Type : Original Article

Author

University of Bologna

Abstract

Although studies on possible Islamic influences in Dante's work  appeared, both in Arab and European journals, since late nineteenth century, it was the publication of La escatologia musulmana en la Divina Comedia by Miguel Asín Palacios, in 1919, that symbolically marked the start of an international  historiographical debate on the relationships between Dante and the Arab World. Since then, this debate has mainly focused on the "presence" of the Arab-Muslim world in Dante and in his culture. Conversely, the theme of Dante's "presence" in the modern and contemporary Arab world has been less explored until now, at least on the European shores of the Mediterranean, in spite of some praiseworthy exceptions. The present aims precisely at contributing to better investigate attitudes towards Dante in the Arab-speaking world, by proposing some guidelines for a comparative analysis of the translation approaches adopted in the most famous Arabic versions of the Divine Comedy: those by ‘Abbūd Abī Rāshid Bey (Tripoli of Libya, 1930-1933), Ḥasan 'Uthmān (Cairo, 1959-1969) and Kāẓim Jihād (Paris, 2002). Beyond the specific reasons of translatological interest, this will hopefully pave the way to a broader work, aimed at reconstructing the main trajectories (ideological, cultural and aesthetic) of Dante's ‘journey' in the modern and contemporary Arab World.

Keywords

Main Subjects


 

  1. Dante e il mondo arabo: traiettorie di un dibattito storiografico

Il settimo centenario della morte di Dante coincide quasi perfettamente con un altro possibile “anniversario” dantesco: il primo centenario della pubblicazione del celebre discurso pronunciato da Miguel Asín Palacios presso la Real Academia Española su La escatologia musulmana en la Divina Comedia (1919)[1], evento che segna simbolicamente l’avvio, sul piano internazionale, del dibattito storiografico sui rapporti tra Dante e il mondo arabo[2]

In verità, studi su possibili influenze islamiche nell’opera dantesca erano già apparsi, in riviste arabe o europee, sin dagli ultimi decenni del XIX secolo. In particolare, sul versante arabo, la Risālat al-Ghufrān di Abū l-‘Alā’ al-Ma‘arrī era stata indicata come una fonte di ispirazione del poema dantesco già nel 1886, in un articolo pubblicato nella rivista libanese al-Muqṭaṭaf, come segnalato dalla studiosa egiziana ‘Ā’isha Bint ‘Abd al-Raḥmān (Bint al-Shāṭī) nella sua edizione critica della celebre opera di al-Ma‘arri[3].  Sul versante italiano, una significativa apertura all’ipotesi di influenze islamiche nella Commedia era stata espressa dal filologo romanzo Angelo De Fabrizio nel 1907, in un articolo in cui segnalava analogie tra il viaggio dantesco e alcune fonti medievali relative al mir‘āj del Profeta Muḥammad[4]. Inoltre, nello stesso anno 1919, subito dopo la pubblicazione del discurso di Asín Palacios, lo studioso algerino Mohammed Bencheneb (1869-1929) lo commentava favorevolmente in un articolo pubblicato nella Revue Africaine, la celebre rivista della Société Historique Algerienne[5], segnalando che egli stesso, già nel lontanto 1894, traducendo il canto XXXI dell’Inferno,[6] si era soffermato sulla possibile origine araba di una delle celebri frasi enigmatiche del poema dantesco (Rafel mai amec zabi almi, Inf. XXXI, 67),[7] e che sin dalla sua prima lettura della Risālat al-Ghufrān, avvenuta nel 1907, aveva anch’egli rilevato alcune significative analogie con il viaggio di Dante nell’oltretomba[8]. La questione, dunque, era nell’aria da tempo, e lo stesso Asín Palacios aveva effettivamente avanzato l’ipotesi di una influenza di idee mistiche e filosofiche musulmane sulla Commedia di Dante già nel 1914, in nota ad un passo del celebre saggio su Abenmasarra y su escuela[9]. Nell’opera, lo studioso spagnolo teorizzava una fondamentale influenza della filosofia religiosa ‘neoplatonica’ di Ibn Masarra (Abenmasarra), mistico musulmano andaluso del secolo X,  e di successivi pensatori e mistici  musulmani ed ebrei di Spagna - inclusi Ibn ‘Arabī ed Ibn Gabirol - su alcune correnti della filosofia scolastica cristiana, precedenti o contemporanee all’affermazione della corrente ‘aristotelica’ di San Tommaso d’Aquino (m. 1274). Tra gli esponenti di queste correnti scolastiche ‘neoplatoniche’, Asín Palacios comprendeva alcuni tra i più grandi pensatori del cristianesimo medievale, come San Bonaventura (m. 1274), Ruggero Bacone (m. 1292), Duns Scoto (m. 1308) e Raimondo Lullo (m. 1315), che egli considerava direttamente imparentati ai pensatori musulmani di tendenza “illuminativa” (ishrāqiyya)[10].  Nel quadro di questo ragionamento, in una breve ma densa nota a piè di pagina, Asín Palacios collocava esplicitamente anche Dante Alighieri - pur tradizionalmente ritenuto un esponente dell’aristotelismo tomistico -  tra gli intellettuali cristiani di tendenza neoplatonica e “ibnmasarriana”; a supporto della sua tesi, egli citava alcuni passi del Paradiso più intensamente connotati dalla simbologia della luce[11]. Sempre nel medesimo quadro, e nella medesima nota a piè di pagina, Asín Palacios suggeriva inoltre una possibile influenza specifica di tematiche e simbologie ibnarabiane sull’opera dantesca, segnalando in particolare una fondamentale analogia strutturale tra l’ascensione narrata da Ibn ‘Arabi nelle Futūḥāt e quella narrata da Dante nel Paradiso[12].   Tuttavia, al momento della pubblicazione del saggio su Ibn Masarra (1914), quella breve nota a pié di pagina su Dante in un libro di islamistica dovette passare sostanzialmente inosservata agli specialisti di letteratura italiana. Al contrario, cinque anni più tardi, la pubblicazione de La escatología musulmana en la Divina Comedia portò la questione dei rapporti tra Dante e il mondo arabo-islamico all’attenzione degli studiosi di tutto il mondo, innescando un processo di confronto critico e di approfondimento filologico che, costantemente alimentato da sempre nuovi contributi, dura ancora oggi.

Coerentemente con la sua genesi, il dibattito si è prevalentemente concentrato sulla “presenza” del mondo arabo-musulmano in Dante o, in linea con più recenti orientamenti critici sulle nozioni di influenza o di ricezione, nella cultura stessa in cui Dante era immerso.  Per contro,  il tema della “presenza” di Dante – e in particolare della Divina Commedia - nel mondo arabo moderno e contemporaneo risulta essere stato meno esplorato, almeno sulle sponde europee del Mediterraneo, pur con alcune lodevoli eccezioni. In particolare, tra i rari studi in lingua italiana su questo tema, si seglano in primo luogo opere di arabisti: oltre al già citato pregevole studio di Elisabetta Benigni (2017), alcuni interventi ‘pionieristici’ di Martino Mario Moreno, Francesco Gabrieli e Umberto Rizzitano, nei primi Anni Sessanta, sul tema delle traduzioni dantesche in arabo[13]; poi, alcuni riferimenti agli studi su Dante in una serie di articoli che Adalgisa De Simone, tra fine anni Sessanta e primi anni Settanta, dedicò all’operato di alcuni pionieri dell’italianistica nel mondo arabo, quali Ṭaha Fawzī[14], ‘Isā al-Na ‘ūrī[15] e Ḥasan ‘Uthmān[16]; infine, assai più recentemente, un fondamentale studio di Bartolomeo Pirone, che tenta una ricognizione sistematica ed una recensione critica – necessariamente incompleta, ma straordinariamente ricca e documentata -  di tutta la produzione di ambito ‘dantesco’ (saggi, articoli, monografie, traduzioni) in lingua araba[17]. Nel contempo, sul versante propriamente dantistico ed italianistico, si è registrato in anni recenti un prezioso contributo dell’illustre italianista egiziano Mahmoud Salem El-Sheikh, membro dell’Accademia della Crusca, che ha analizzato gli atteggiamenti assunti dai principali traduttori arabi  nei confronti del controverso passo di Inferno XXVIII contenente riferimenti al Profeta Muḥammad, ponendo così le basi per una più adeguata comprensione di questo delicato problema traduttologico e storico-culturale[18].

Su questo sfondo, il presente articolo intende offrire un nuovo contributo all’esplorazione della “presenza” di Dante nel mondo arabofono,  proponendo alcune direttrici per un’analisi comparativa degli approcci traduttologici adottati nelle più note versioni arabe della Divina Commedia: quelle di ‘Abbūd Abī Rāshid Bey (Tripoli di Libia, 1930-1933)[19], Ḥasan ‘Uthmān (Il Cairo, 1959-1969)[20] e Kāẓim Jihād (Parigi, 2002)[21]. Indubbiamente, un tema di così vasta portata dovrà essere approfondito in lavori di ben maggiore estensione, ma in questo primo articolo intendiamo almeno condividere alcune osservazioni che riteniamo possano essere utili per un inquadramento di questa complessa problematica. Al di là degli specifici motivi di interesse traduttologico, la presente proposta di analisi  vuol contribuire a definire le coordinate fondamentali per un lavoro di più ampio respiro, volto alla ricostruzione delle principali traiettorie (ideologiche, culturali ed estetiche) del ‘viaggio’ di Dante nel mondo arabo moderno e contemporaneo.

 

2. Le prime traduzioni della Commedia e l’opera di ‘Abbūd Bey

Sebbene, come accennato sopra, l’interesse di intellettuali del mondo arabo per la Divina Commedia risalga almeno al diciannovesimo secolo, le prime traduzioni storicamente documentate del poema dantesco sono da collocarsi agli inizi del ventesimo secolo. Più precisamente, allo stato attuale delle ricerche, la prima traduzione araba mai pubblicata di un passo della Commedia sembra essere stata quella dell’autore libanese Giuseppe Sachr, limitata ai versi iniziali del canto XI del Purgatorio (1-24), ovvero la ‘orazione domenicale’ che le anime purganti pronunciano in favore di coloro che ancora sono sulla Terra[22]. Si tratta di un testo di grande importanza religiosa, nel quale Dante aveva ‘tradotto’ e commentato, in lingua volgare e in forma poetica, i contenuti del Pater Noster, la prima preghiera cristiana. Nel 1911 l’erudito ed imprenditore italiano Marco Besso (1843-1920), fortemente animato da sentimenti patriottici e risorgimentali, volle scegliere questo passo del Purgatorio - probabilmente anche perché, a differenza di altri passi danteschi, non conteneva riferimenti teologici incompatibili con le altre religioni monoteistiche - come base per una memorabile impresa editoriale, legata alle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia e della proclamazione di Roma come capitale del regno:   la pubblicazione della ‘orazione domenicale’ in oltre venti lingue di tutto il mondo, dal latino al cinese, dal gaelico al russo, dal copto al giapponese[23]. Una iniziativa volta a dimostrazione il carattere potenzialmente universale dell’arte di Dante, che egli esaltava come “poeta dell’umanità”[24] oltre che padre della lingua italiana e precursore dell’aspirazione all’unità nazionale. Ed è appunto in questo contesto che va collocata la versione araba dell’orazione domenicale da parte di Giuseppe Sachr, eseguita dal dotto libanese su richiesta di Marco Besso, il quale non aveva potuto trovare alcuna traccia dell’esistenza di traduzioni arabe del poema dantesco. 

Tuttavia, al di là di questo esperimento limitato ai primi versi di Purgatorio XI, la Divina Commedia rimase in attesa di un tentativo di traduzione integrale ancora per diversi anni. Il primo a cimentarsi nell’impresa fu un erudito italo-arabo dalla complessa formazione culturale: il Cavalier ‘Abbūd Abī Rāshid Bey (1870-1955)[25], cattolico maronita di origine libanese, ma naturalizzato italiano,  che prestava la sua opera nell’amministrazione coloniale in Libia[26]. Dalla metà degli anni Venti, ‘Abbūd Bey si dedicò a tradurre in arabo (ta‘rīb)  il poema dantesco, volgendolo integralmente in prosa, e pubblicando le tre cantiche separatamente, tra il 1930 e il 1933, a Tripoli di Libia. ‘Abbūd Bey era un convinto sostenitore del progetto imperiale dell’Italia,  uscita vittoriosa dalla Grande Guerra, e con questi sentimenti si impegnò sia in imprese di carattere culturale (come la redazione di manuali per l’insegnamento della lingua italiana agli studenti arabofoni) sia in iniziative di più immediata connotazione politica, come la nota lettera con cui, nel 1925, invitò (senza successo) il celebre capo della resistenza libica ‘Umar al-Mukhtār ad accettare la presenza coloniale italiana[27].  In questo quadro, risulta difficile valutare se la decisione di tradurre integralmente la Divina Commedia in lingua araba rispondesse principalmente, per ‘Abbūd Bey, a motivazioni di ordine culturale o ad esigenze di carattere politico, o ad una combinazione di entrambe le dimensioni. Per un primo orientamento in merito, sembra utile analizzare non soltanto le prefazioni ai tre volumi dell’opera, ma anche alcune scelte traduttologiche potenzialmente significative sul piano ideologico.

Nella prefazione al primo volume, datata 25 luglio 1926 (anche se il volume uscì nel 1930), l’autore presenta esplicitamente l’opera di Dante sotto due dimensioni fondamentali:  una dimensione specificamente letteraria (adabī), che esprime valori e contenuti potenzialmente universali, e una dimensione politica (siyāsī), incentrata specificamente sull’aspirazione all’unità nazionale italiana[28]. Questa lettura di Dante come vate della nazione italiana, che risulta in linea peraltro con tutta la tradizione risorgimentale, era in particolare sintonia con la politica coloniale del tempo, in cui “universalità” e “italianità” di Dante potevano confluire in una visione dell’Italia come centro propulsore di una nuova idea imperiale. In tale prospettiva, risultano di particolare interesse alcune scelte traduttologiche dell’autore, che appaiono ispirate ad una singolare combinazione tra una forte attenzione per la sensibilità della comunità musulmana ed una esaltazione quasi religiosa del poema dantesco. Al primo ambito deve ricondursi innanzitutto, per espressa dichiarazione dell’autore, la scelta di non tradurre il noto e controverso passo di Inferno XXVIII, motivata esplicitamente con la volontà di non recare offesa ai sentimenti della nobile comunità (umma karīma) dei fedeli musulmani[29]. Analogamente, è possibile che a tale attegiamento di rispetto si debba ricondurre anche la scelta di tradurre il titolo del poema con una elaborata perifrasi:  Al-Riḥla al-Dāntiyya ilā al-mamālik al-ilāhiyya (“Il viaggio di Dante nei Regni Divini”). Una traduzione che, se da un lato poteva trovare una pratica motivazione nel suo carattere più immediatemente descrittivo rispetto al termine tecnico Kūmīdiyā, potenzialmente oscuro al di fuori della ristretta cerchia dei letterati,  d’altro lato offriva il non trascurabile vantaggio, sul piano ideologico, di associare l’aggettivo “divino” (ilāhīyya) esclusivamente alle realtà sovrasensibili descritte nel poema (i regni dell’oltretomba) e non anche al poema stesso; in tal modo, l’opera dantesca veniva (implicitamente ma efficacemente) ricondotta entro i limiti dell’ingegno umano, prevenendo in tal modo problemi o incomprensioni di carattere teologico. Tuttavia, se il titolo scelto sembra appunto volere scongiurare ogni rischio di “divinizzazione” del poema e/o del genio dantesco, altre scelte compiute dall’autore sembrano invece indicare il riaffiorare, più o meno consapevole, di una tendenza ad esaltare Dante e la Divina Commedia oltre i limiti dell’umano[30]. In particolare, appare di notevole interesse, ancora nella Prefazione al primo volume, l’uso del termine mu‘jiza per qualificare il capolavoro dantesco, che probabilmente esprime qui semplicemente una nozione di “inimitabilità” e “inarrivabilità” rispetto ad altre opere puramente umane, ma che non può non suscitare un immediato richiamo alla nozione di inimitabile miracolo profetico (mu‘jiza, معجوة) e più specificamente al carattere inimitabile e ineguagliabile (i‘jāz,  إعجاز) del Corano stesso, che in ambito islamico è generalmente considerato il principale miracolo (mu‘jiza) del Profeta Muḥammad. In tal modo, l’autore sembra non soltanto innalzare l’opera di Dante al di sopra di ogni altro prodotto dell’ingegno umano, ma anche al di sopra dello stesso intelletto umano.  Senza poter qui formulare alcuna ipotesi conclusiva su un problema tanto importante e delicato, che sarà oggetto di nostre più approfondite analisi in ulteriori studi, sembra però importante segnalare che almeno in un  punto cruciale il testo prodotto da ‘Abbūd comporta un richiamo diretto al linguaggio coranico: la traduzione dell’espressione dantesca “diritta via”, nel terzo verso del canto proemiale della Commedia (dunque in uno spazio testuale di grande rilevanza) con l’espressione coranica al-ṣirāṭ al-mustaqīm:

 فلما بلغت نصف طريق الحياة   ضللت الصراط المستقيم [31]

 

L’adozione di un termine così fortemente connotato in senso islamico, che evoca peraltro una fondamentale nozione dell’escatologia musulmana e che richiama immediatamente, alla mente di qualsiasi persona di cultura araba, un verso della Prima Sura del Corano, indica indubbiamente una scelta consapevole di mimetismo da parte dell’autore (che non sarà seguita dai successivi traduttori arabi della Commedia). Tuttavia, il significato di una simile scelta non è immediatamente chiaro: si deve interpretare il riferimento al ṣirāṭ al-mustaqīm come un semplice ‘omaggio’ dell’autore, arabo di religione cristiana, ai suoi confratelli arabi di religione islamica? Oppure come un più sottile desiderio di ‘emulazione’ sul piano religioso? O infine si tratta di un tentativo di ‘coranizzare’ il linguaggio dantesco e l’atmosfera generale del poema ai fini di una più agevole ‘inculturazione’ del messaggio di Dante, e quindi anche di una più facile realizzazione dell’opera di ‘missionario’ dell’idea imperiale italiana che ‘Abbūd Bey sembra assegnare a Dante Alighieri?

Le risposte a tali quesiti potranno venire soltanto da uno studio sistematico della traduzione di ‘Abbūd Bey e da un ampio sforzo di contestualizzazione di questa opera, non soltanto dal punto di vista della storia politica e culturale del suo tempo, ma anche dal punto di vista della storia letteraria araba, per valutare più adeguatemente le varie implicazioni possibili delle scelte traduttive operate dall’autore nei punti sopra citati e in molti altri passaggi  potenzialmente problematici sul piano ideologico e religioso. In questa sede, ci limitiamo a segnalare l’esistenza di tali questioni interpretative,  ed a sottolineare l’interesse specifico della traduzione dantesca di ‘Abbud Bey per la storia delle relazioni interculturali nel Mediterraneo, ben al di là della limitata attenzione che essa ha ricevuto, fino ai giorni nostri, sia in ambito italianistico sia in ambito arabistico.

Pochi anni più tardi, nel 1938, a Gerusalemme, Amīn Abū Sha‘r pubblicò una nuova versione araba in prosa, ma limitata alla prima cantica (l’Inferno) e talora dipendente dalla traduzione inglese di  Henry Francis Cary[32]. Per questi motivi, non sembra opportuno soffermarsi in questa sede su tale opera, che peraltro non sembra aver esercitato alcun impatto significativo sulla scena culturale del tempo.

 

3. Ḥasan ‘Uthmān : la traduzione come opera storico-filologica

Se le imprese di traduzione dantesca sin qui citate sono rimaste in qualche modo esperimenti privi di successivi sviluppi nel mondo arabo, ben più vasta e profonda è stata e continua ad essere l’influenza esercitata dalla traduzione dello storico ed italianista egiziano Ḥasan ‘Uthmān.

Questa traduzione, avviata nel 1951[33], fu portata a termine nell’arco di quasi venti anni di studio, di ricerche, di viaggi nei luoghi danteschi o nelle biblioteche in cui fossero custoditi documenti rilevanti per la storia della Commedia, di Dante, della cultura medievale nel suo complesso. Un’impresa titanica, che si concretizzò in numerosi articoli su Dante o su aspetti e personaggi particolari del poema, e che condusse infine alla pubblicazione, in fasi distinte, di una traduzione integrale in prosa delle tre cantiche,  corredata da ponderosi apparati critici. L’Inferno (al-Jaḥīm) vide la luce nel 1959, il Purgatorio (al-Maṭhar) nel 1964, il Paradiso (al-Firdaws) nel 1969. In questa vasta opera, alla quale dedicò metà delle sue settimane di lavoro per gran parte della sua vita[34], Ḥasan ‘Uthmān non si limitò ad ‘arabizzare’ il testo dantesco come aveva fatto (in forme che meritano comunque un attento studio) il suo predecessore ‘Abbūd Bey,  ma ne ricostruì il contesto, ne analizzò i contenuti e le modalità espressive, ne discusse aspetti filologici, ideologici, filosofici, teologici, storico-culturali, elaborando infine scelte traduttive profondamente consapevoli, e spesso da lui esplicitamente motivate nelle prefazioni alle singole cantiche o in specifici passi del testo. In attesa di poter condurre una indagine sistematica sull’intero testo di Ḥasan ‘Uthmān, alcune di queste scelte traduttive sembrano già fornire indicazioni di grande importanza in relazione al senso complessivo dell’operazione svolta dallo studioso egiziano.

In primo luogo, merita particolare attenzione la scelta della forma di traduzione: poesia o prosa? Come già avevano fatto ‘Abbūd Bey a Amīn Abū Sha‘r, anche Ḥasan ‘Uthmān opta per una traduzione in prosa. Tuttavia, nel suo caso la scelta sembra da ricondurre non tanto ad una ricerca di facilità espositiva o compositiva, quanto a precise  considerazioni di carattere traduttologico, che egli espone nella corposa introduzione alla prima cantica: la convinzione della sostanziale intraducibilità della poesia, e  l’altissimo rispetto per l’opera-fonte, che egli considera un capolavoro poetico di livello assoluto, compiutamente apprezzabile soltanto nella sua forma – e dunque nella sua lingua – originale.  In questo quadro, Ḥasan ‘Uthmān esprime anzi l’auspicio che la sua traduzione spinga il lettore arabo ad apprendere la lingua italiana, proprio al fine di poter gustare l’opera dantesca nella pienezza dei suoi valori estetici e nella ricchezza dei suoi contenuti[35]. Lungi dal voler in alcun modo ‘sostituire’ l’opera tradotta, per Ḥasan ‘Uthmān la traduzione deve dunque porsi come una ‘introduzione’ ad essa, in un’ottica di servizio che sembra essere ispirata, oltre che dalla specifica ammirazione per il capolavoro di Dante, anche da una più generale visione della traduzione come attività eminemente storica e filologica: il ‘testo-meta’ (o term-text)  non vuole porsi in competizione con il ‘testo-fonte’ (source-text) né rivendicare un proprio valore di opera letteraria autonoma, ma vuol essere innanzitutto, e soprattutto, una vasta opera di supporto e di commento al testo-fonte.

Per questi motivi, la sua traduzione è concepita come una parafrasi discorsiva del testo dantesco (del quale egli cerca comunque di riprodurre in parte, almeno sul piano grafico, le strutture formali,  presentando il contenuto di ogni terzina in un periodo singolo) ed è integrata da un vastissimo apparato di indicazioni critico-testuali e di informazioni storiche, linguistiche e storico-culturali. A queste informazioni si uniscono, ogni qualvolta l’autore lo ritenga necessario, considerazioni di carattere più personale, che spaziano dal  ricordo affettuoso dei propri incontri con i luoghi danteschi (basti pensare alla vibrante descrizione di Assisi fornita in nota al celebre passo su San Francesco in Paradiso XI) [36], alla formulazione di giudizi critici ed estetici,  fino alla discussione di fondamentali questioni di carattere teologico ed ideologico.

Proprio nell’ambito teologico e ideologico, con ogni evidenza il più delicato in ogni opera traduzione interculturale, è possibile cogliere un altro aspetto fondamentale dell’approccio traduttologico di Ḥasan ‘Uthmān Su questo terreno, infatti, il ‘traduttore’ mostra nel contempo una notevole indipendenza di giudizio nei confronti della fonte ed un altissimo rispetto per l’individualità storica della fonte stessa, che trova espressione nella sempre viva attenzione alla precisione filologica e alla contestualizzazione storica. Da un lato, Ḥasan ‘Uthmān esalta in Dante uno dei più grandi artisti che l’umanità abbia mai conosciuto (insieme a Michelangelo ed a Beethoven, dunque al di là di ogni barriera temporale o culturale)[37]. Dall’altro lato, però, egli non dissolve mai la figura storica di Dante in un indistinto e anacronistico afflato umanitaristico, ma ne delinea fedelmente i contorni storici, inquadrandola nella cultura e nella vita intellettuale, sociale, politica del Medioevo europeo. Con questo atteggiamento, pur nella massima ammirazione per il genio poetico di Dante, per la sua intensa vita spirituale, per la sua dirittura morale e per il suo profondo rifiuto delle ingiustizie (un aspetto che egli sente intimamente consono alla propria stessa sensibilità)[38], Ḥasan ‘Uthmān registra puntualmente - e contesta apertamente -  teorie o posizioni di Dante che risultino incompatibili con la religione islamica, pur riconoscendo come queste derivassero, più da che personali convincimenti del poeta, dalla cultura in cui Dante era immerso. In questo senso, risulta di particolare interesse la motivazione che Ḥasan ‘Uthmān adduce per spiegare la sua scelta di non tradurre i versi 22-64 di Inferno XXVIII:

 

«Ho espunto da questo canto alcuni versi che ho trovato non meritevoli di traduzione,

riguardanti il Profeta Muḥammad, su di lui la Benedizione e la Pace di Dio. In tali versi,

Dante commette un gravissimo errore, influenzato in ciò dalle idee dominanti al suo tempo,

nell’opinione comune così come nelle opere (dei dotti), riguardo all’Inviato di Dio»[39].

 

Se già il suo precursore ‘Abbūd Bey aveva scelto di non tradurre quel passo per rispetto della comunità musulamana, Ḥasan ‘Uthmān mostra, con queste parole, di essere mosso da una duplice forma di rispetto: non soltanto verso il lettore musulmano di oggi, ma anche verso il poeta stesso, quasi a voler liberare l’immagine di Dante dall’associazione con idee che non sono specificamente sue ma che egli ha inevitabilmente ‘assorbito’ dalla cultura religiosa del suo tempo. Per converso, e con analoga attenzione  al contesto storico, Ḥasan ‘Uthmān sottolinea con favore la capacità di Dante  di superare in parte i limiti di quella stessa cultura, almeno in relazione ad aspetti meno sensibili dal punto di vista teologico,  e di andare verso il riconoscimento di valori positivi anche in altre culture, come quando egli esalta, collocandoli nel Limbo,  alcuni personaggi emblematici della civiltà arabo-musulmana, da Ibn Sīnā (Avicenna) ed Ibn Rushd (Averroè) fino a Ṣalāḥ al-Dīn al-Ayyūbī (Saladino)[40].

In questo ambito, risulta di particolare interesse l’originale – e isolata – scelta traduttiva che Ḥasan ‘Uthmān compie in relazione ad un passo di grande rilievo ‘inter-religioso’: la rappresentazione dell’incontro che San Francesco d’Assisi avrebbe avuto con il Sultano al-Malik al-Kāmil (Paradiso XI, 100-105). Come noto, Dante esalta in quell’incontro lo spirito missionario di Francesco, che non viene meno alla sua predicazione  cristiana neppure “alla presenza del Soldan superba” (Paradiso XI, 105); in questo quadro, l’aggettivo “superba” è stato tradizionalmente interpretato in un senso negativo, come l’attribuzione al Sultano di un atteggiamento, appunto, di superbia, che teologicamente costituirebbe un grave peccato, e che sarebbe la ragione profonda della mancata ‘conversione’ del Sultano stesso nonostante la predicazione di Francesco. Contro tutta la tradizione esegetica consolidata, Ḥasan ‘Uthmān traduce però “superba” con ’aẓīma ((عظيمة, cioè “grandiosa, magnifica”, valorizzando così un possibile significato alternativo del termine stesso. Con tale operazione, ardita ma filologicamente plausibile, ‘Uthmān ribalta la prospettiva attribuita a Dante: come nel caso degli spiriti magni presentati nel Limbo, il poeta evocherebbe qui in termini elogiativi un grande personaggio della civiltà islamica, riconosciuto come spiritualmente nobile, anche in virtù del trattamento ospitale e rispettoso da lui accordato a San Francesco, pur nella ribadita affermazione della differenza religiosa. Un’interpretazione decisamente controcorrente, che suggerisce la possibilità di nuove prospettive di analisi sull’atteggiamento complessivo di Dante nei confronti della civiltà musulmana, e che soprattutto indica la complessità e la ricchezza del rapporto che Ḥasan ‘Uthmān intrattiene con la figura storica di Dante e con la cultura del Medioevo europeo. Una tale ricchezza di prospettive e una tale finezza di analisi sono rese possibili non soltanto dalla personale sensibilità del ‘traduttore’ e dal suo sentimento di affinità elettiva nei confronti di un poeta pur così lontano nel tempo e nello spazio, ma anche e soprattutto dalla vastità e profondità della cultura storica, linguistica e filologica di Ḥasan ‘Uthmān: competenze che gli consentono di colmare, almeno in parte, la distanza storico-culturale dall’uomo-Dante e di addentrarsi con strumenti affidabili nell’esplorazione di quella sterminata “selva”, oscura e insieme luminosa, che è la Commedia.

Per questi motivi, l’impresa compiuta da Ḥasan ‘Uthmān resta una pietra miliare nella storia della traduzione scientifica, ed ha ispirato profondamente le più significative esperienze di traduzioni dantesche in lingua araba, fino alla recente versione della Commedia di ‘Abd Allāh al-Najjār e Al-Sayyid ‘Alī (2019)[41], ed alla ancor più recente traduzione di Vita Nuova ad opera del Professor Hussein Mahmoud (2021)[42].

 

4. Kāẓim Jihād e la sfida della poesia

Se l’opera di Ḥasan ‘Uthmān rappresenta un modello insuperato di traduzione scientifica del poema dantesco, una impostazione prevalentemente estetica ispira invece la traduzione di Kāẓim Jihād , pubblicata nel 2002 a Parigi nel quadro di un programma dell’Unesco per la promozione del dialogo interculturale.  Contrariamente ai suoi predecessori, Kāẓim Jihād, scrittore, poeta e critico letterario di origine iraqena da tempo attivo sulla scena culturale francese, ha infatti optato per una traduzione in forma poetica,  portando il confronto con il testo-fonte direttamente sul terreno della creazione letteraria. Una scelta coraggiosa, resa ancor più complessa dalla sfida, che il poeta-traduttore ha posto a se stesso ed alla tradizione letteraria araba, di riprodurre in qualche modo la struttura delle terzine dantesche pur in un contesto metrico e fonetico profondamente differente[43].

In questa impresa, l’autore punta innanzitutto a valorizzare le dimensioni estetico-letterarie dell’opera dantesca, avvalendosi, accanto alla lettura diretta della Commedia, del confronto con molteplici traduzioni artistiche in diverse lingue, in primo luogo il francese e lo spagnolo (ed in particolare la traduzione poetica francese di Jacqueline Risset), e delle riflessioni critiche di grandi figure della letteratura contemporanea, da Giuseppe Ungaretti a Jorge Luis Borges[44]. Per converso, probabilmente per ragioni di carattere estetico (determinate in primo luogo dalla scelta di tradurre la Commedia in poesia anziché in prosa) egli sembra invece dedicare solo una limitata attenzione alle traduzioni arabe precedenti, inclusa quella di Ḥasan ‘Uthmān, della quale egli dichiara di aver consultato le prime due cantiche ma non la terza, per impossibilità di procurarsi una copia del testo[45]. Un atteggiamento che conferma come il centro dell’interesse di Kāẓim Jihād consista nella sfida letteraria con il testo-fonte, piuttosto che nella possibilità di contribuire ad una migliore conoscenza dei contenuti e delle problematiche del testo medesimo presso il pubblico arabofono.  

Coerentemente con questa impostazione prevalentemente estetico-letteraria, il lavoro di contestualizzazione storica e di analisi critica risulta assai più limitato rispetto all’impresa svolta da Ḥasan ‘Uthmān, e non sembra apportare prospettive originali o proposte innovative sul piano storico, linguistico o filologico.

Per tali ragioni, al di là dei suoi meriti letterari, e del suo potenziale contributo al dialogo tra le civiltà, la pur importante opera di Kāẓim Jihād non sembra aver esercitato una particolare influenza sul dibattito culturale, mentre le audaci soluzioni formali da lui elaborate sembrano restare, al momento, un esperimento isolato, senza ripercussioni dirette sull’attività di altri letterati che si sono cimentati con la traduzione della Commedia in lingua araba.

 

5. Conclusioni.

Un tentativo di ricostruzione delle concrete esperienze storiche di traduzione del poema dantesco in lingua araba richiede, con ogni evidenza, un lavoro di ampio respiro, basato sull’analisi integrale di ciascuna traduzione, sul confronto delle scelte traduttive compiute dai diversi autori in passaggi filologicamente e/o ideologicamente problematici del testo-fonte,  su uno sforzo ampio di contestualizzazione storica dell’opera di ciascun traduttore considerato, al fine di contribuire alla definizione delle principali traiettorie nella ricezione della figura di Dante nella cultura araba moderna e contemporanea.  Un lavoro che, nello spazio di questo breve articolo preliminare, non può essere neppure iniziato, ma solamente evocato o ‘auspicato’ come obiettivo di una ricerca futura.

Tuttavia, la pur rapida escussione delle principali traduzioni arabe della Divina Commedia tentata nei paragrafi precedenti ha comunque fatto emergere, a nostro avviso, alcuni elementi utili a delineare alcune direzioni di indagine per una tale ricerca. In primo luogo, essa ha consentito di individuare tre distinti approcci traduttologici nelle tre diverse opere prese in considerazione: in ‘Abbūd Bey, un tentativo di ‘arabizzare’ e quasi ‘coranizzare’ il poema dantesco, con modalità e motivazioni che dovranno essere oggetto di approfondita analisi anche sul piano storico-culturale; in Ḥasan ‘Uthmān,  un immane sforzo di ricostruzione della ‘individualità’ storica della Commedia, del suo autore, del suo tempo, in un’ottica di ‘introduzione’ e di ‘servizio’ al testo-fonte; in Kāẓim Jihād, infine, una sfida lanciata al testo-fonte, nell’eterno presente dello spazio letterario, come stimolo e modello per  la produzione di un’opera traduttiva ‘fedele’ ma dotata di autonomo valore estetico.  

Nel contempo, le pur limitate informazioni fornite nel presente articolo permettono già di evidenziare il diverso livello di impatto esercitato da queste traduzioni sul contesto culturale e letterario arabo. A questo proposito, senza poterci addentrare in una dettagliata analisi comparativa, ci limitiamo qui a segnalare il ruolo essenziale svolto dall’opera di Ḥasan ‘Uthmān nella ricezione della Commedia nella cultura araba contemporanea. Al di là di specifiche motivazioni di carattere ‘contestuale’ che potranno essere eventualmente rilevate nel prosieguo della ricerca,  la vasta e profonda influenza di Ḥasan ‘Uthmān, risulta facilmente comprensibile alla luce del metodo di lavoro e del complessivo approccio storico-filologico adottati dallo studioso egiziano. Un metodo ed un approccio che rendono ancora oggi la sua opera un punto di riferimento ineludibile per chi voglia tentare nuove traduzioni arabe del poema dantesco, come per chiunque nel mondo voglia accostarsi, con atteggiamento filologicamente e storicamente consapevole, alla traduzione di un’opera letteraria che provenga da un orizzonte culturale lontano nel tempo e nello spazio.

 



[1] M. Asín Palacios, La escatologia musulmana en la Divina comedia / discurso leído en el acto de su recepción por D. Miguel Asín Palacios, y contestación de D. Julián Ribera Tarragó, el día 26 de enero de 1919, Madrid: Imprenta de  Estanislao  Maestre, 1919.

[2] Per un proficuo orientamento nella ormai sterminata bibliografia su tale dibattito, e per innovative prospettive di analisi tanto sulla questione delle influenze islamiche nella cultura dantesca, quanto sulla ricezione di Dante nel mondo arabo moderno e contemporaneao, si rinvia al fondamentale studio di Elisabetta Benigni: E. Benigni, “Dante and the Construction of a Mediterranean Literary Space: Revisiting a 20th Century Philological Debate in Southern Europe and in the Arab World”,  Philological Encounters (2017), pp. 111-138.

[3] ʿĀʾisha ʿAbd al-Raḥmān (Bint al-Shāṭī), Al-Ghufrān li-Abī ʿAlāʾ al-Maʿarrī: dirāsa naqdiyya, Cairo: Dār al-Maʿārif, 1954, p. 312, n. 1.

[4] A. De Fabrizio, “Il ‘Mirag’ di Maometto esposto da un frate salentino del secolo XV,” Giornale storico della letteratura italiana 49 (1907), pp. 299-313.

[5] [M.] Bencheneb, «Sources musulmanes dans la ‘Divine Comédie’», Revue Africaine 60 (1919), pp. 483-494. Nell’indice del volume, così come al termine dell’articolo (Ivi, p. 494), l’autore è indicato solo come “Bencheneb”, senza specificazione del nome personale. Tuttavia, non sussistono dubbi sulla sua identificazione con il grande erudito Mohammed Bencheneb, allora professore alla Facoltà di Lettere di Algeri e membro della Société Historique Algérienne. Curiosamente, nella bibliografia di uno studio recente l’autore dell’articolo è indicato come “Saadeddine Bencheneb”, ma si tratta con ogni evidenza di una interpretazione erronea: Saadeddine, che era figlio di Mohammed Bencheneb e fu anch’egli un noto intellettuale, nacque nel 1907, quindi assai difficilmente avrebbe potuto scrivere un articolo scientifico già nel 1919 …e in ogni caso non avrebbe potuto menzionare sue letture avvenute nel 1894!

[6] Ivi, p. 483. Il riferimento a questo ‘tradurre’ è molto rapido, e non permette di stabilire se l’autore stia evocando una sua privata lettura del passo dantesco o una vera e propria traduzione concepita per la pubblicazione. In questo secondo caso, si tratterebbe della prima traduzione araba edita di un passo della Divina Commedia. Tuttavia, non è stato finora possibile trovare alcun riferimento chiaro alla esistenza di una tale pubblicazione; per questo motivo, allo stato attuale delle ricerche, sembra più prudente riferire l’espressione ad una attività di lettura personale del testo dantesco.

[7] Sulle molteplici grafie e le differenti interpretazioni proposte per questa frase, gridata dal gigante Nimrod (“Nembrotto”) nell’ottavo cerchio dell’Inferno, si rinvia alla specifica voce curata da Ettore Caccia per la Enciclopedia Dantesca (1970): https://www.treccani.it/enciclopedia/raphel-mai-amecche-zabi-almi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/

[8] [M.] Bencheneb, «Sources musulmanes dans la ‘Divine Comédie’», op. cit., p. 483.

[9] M. Asín Palacios, Abenmasarra y su escuela. Horigenes de la philosophia hispano-musulmana (Discurso de ingreso en la Real Academia de Ciencias Morales y Políticas), Madrid: Imprenta Ibérica – E. Maestre, 1914.

[10] Asín Palacios, Abenmasarra, op. cit. p. 120.

[11] Ivi, p. 120, nota 2 (che continua nella pag. 121).

[12] Ibid.

[13] In particolare: M.M. Moreno, “L’Inferno di Dante di Hasan 'Utman”, Levante, VII/3 (1960), pp. 48-50, F. Gabrieli “Dante in arabo”, in Id., Saggi Orientali, Caltanissetta-Roma: S. Sciascia, 1960, pp. 161-165; F. Gabrieli,  “Il nuovo Dante in arabo”, Levante XI/3-4 (1964), pp. 81-83; U. Rizzitano, “Dante e il mondo arabo”, in Vittore Branca & Ettore Caccia (a c. di),  Dante nel mondo, Firenze: L.S. Olschki, 1965, pp. 1-17 (in particolare pp. 13-17).

[14] A. De Simone, «Notizie bio-bibliografiche su Ṭaha Fawzī», Oriente Moderno 49 /4-5 (1969), pp. 288-292.

[15] A. De Simone, «Notizie bio-bibliografiche su ‘Isā al-N ‘ūrī », Oriente Moderno  50/2 (1970), pp. 589-592.

[16] A. De Simone, «Notizie bio-bibliografiche su Ḥasan ‘Uthmān», Oriente Moderno 54/1-3 (1974), pp. 23-27.

[17] B. Pirone, «Dante nell’editoria araba», in Anna Cerbo, Mariangela Semola (a c. di), Lectura Dantis 2002-2009, Napoli: Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 2011, pp.

[18] M. S. Elsheikh, “Lettura (faziosa) dell’episodio di Muhammad: Inferno, XXVIII”, Quaderni di Filologia Romanza 23 (2015), pp. 5-34.

[19] ‘Abbūd Bak Abī Rāshid, al-Riḥla al-Dāntiyya ilā l-mamālik al-ilāhiyya: wa-hiya ta‘rīb “La Divina Comedia” lil-shā‘ir al-īṭālī Dante Alighieri bi-qalam al-Kawalir al-Ustadh ‘Abbūd Bak Abī Rāshid, Tripoli: «Tipolit. Scuola di Arti e Mestieri» di P. Maggi, 3 voll., 1930-1933.                                                                                                                                    

[20] Ḥasan ‘Uthmān, Kūmīdiyā Dāntī Alījiyīrī / al-Flurānsī mawlidan lā khuluqan / al-Nashīd al-awwal: al-Jaḥīm, Cairo: Dār al-Maʿārif, 1959; al-Nashīd al-thānī: al-Maṭhar, Cairo: Dār al-Maʿārif, 1964; al-Nashīd al-thālithal-Firdaws, Cairo: Dār al-Maʿārif, 1969.

[21] Kāẓim Jihād, Dāntī Alīghiyīrī, al-Kūmīdiyā al-ilāhiyya: naqla-hā ilā l-‘arabiyya wa-qaddama-hā wa-a‘adda ḥawāshī-hā Kāẓim Jihād. Parigi: Unesco, 2002.

[22] G. Sachr, [Yā Abānā al-muqīm bi-l-samāwāt]. In M. Besso, La fortuna di Dante fuori d’Italia, Roma: Biblioteca Besso Editrice, 1912, p. 307.

[23]  L’elenco delle lingue è in M. Besso, La fortuna di Dante fuori d’Italia, op. cit., pp.  328-329.

[24] M. Besso, La fortuna di Dante fuori d’Italia, op. cit, p. III.

[25] Le date di nascita e di morte sono indicate in Badr al-Dīn al-Mukhtār, « ‘Abbūd Bak wa-al-Riḥla al-Dāntiyya wa-‘Umar al-Mukhtar», Ṭuyūb, 03/11/2019, 10.33 am. Consultato online il 25 ottobre 2021 https://tieob.com/archives/40886

[26] Alcune informazioni su di lui sono fornite nella recensione di Laura Veccia Vaglieri alla sua traduzione della prima cantica. L.Veccia Vaglieri, «Abbud Abi-Rascid Bey. La Divina Comtnedia di Dante Alighieri, versione in prosa araba: Inferno. […]. Tripoli, Tipolit. Scuola Arti e Mestieri di P. Maggi, 1930-A. VII E. F., in-8°, 296 + [8] pp. e due tavole fuori testo», Oriente Moderno XI/2 (1931), pp. 112-114.

[27] Su questa lettera, oltre a Badr al-Dīn al-Mukhtār, « ‘Abbūd Bak », op. cit. (che cita anche la risposta di ‘Umar al- al-Mukhtār), si veda Faraj Bū al-‘Assha, «Sīrat ‘Umar al-Mukhtār usṭūrat al-zamān», Lībiyā al-Mustaqbal,  19/12/2019. Consultato online il 26 ottobre 2021. https://archive.libya-al-mostakbal.org/Articles1209/farag_buelesha_191209.html

[28] ‘Abbūd Bak Abī Rāshid, al-Riḥla al-Dāntiyya, op. cit., vol. 1, pp. 7-8.

[29] Ivi, p. 11.

 

[31] ‘Abbūd Bak Abī Rāshid, al-Riḥla al-Dāntiyya, op. cit., vol. 1, p. 14.

[32] Hassan Osman [ = Ḥasan ‘Uthman], «Dante in Arabic»  Annual Report of the Dante Society, with Accompanying Papers  73 (1955), pp. 47-52 ; qui, p. 51.

[33] Ḥasan ‘Uthmān, Kūmīdiyā Dāntī Alījiyīrī, op. cit., vol. 1, p. 8.

[34] A. De Simone, «Notizie bio-bibliografiche su Ḥasan ‘Uthmān», op. cit., p. 25. 

[35] Ḥasan ‘Uthmān, Kūmīdiyā Dāntī Alījiyīrī, op. cit., vol. 1, p. 68.

[36] Ḥasan ‘Uthmān, Kūmīdiyā Dāntī Alījiyīrī, op. cit., vol. 3, p. 233, nota 49.

[37] Ḥasan ‘Uthmān, Kūmīdiyā Dāntī Alījiyīrī, op. cit., vol. 1, p. 13.

[38] A. De Simone, «Notizie bio-bibliografiche su Ḥasan ‘Uthmān»,  op. cit., p. 25.

[39] Ḥasan ‘Uthmān, Kūmīdiyā Dāntī Alījiyīrī, op. cit., vol. 1, p. 371 (traduzione nostra).

[41] ‘Abd Allāh ‘Abd al-‘Āṭī al-Najjār & ‘Iṣṣām Al-Sayyid ‘Alī, al-Kūmīdiyā al-ilāhiyya - al-Jaḥīm -  Dāntī Alījiyīrī, Dubai: Medad Publishing & Distribution, 2019.

[42] Dāntī Alījiyīrī, Ḥayyāt jadīda / Vita Nuova: tarjama-hu min al-īṭāliyya D. Ḥusayn Maḥmūd. Cairo: Dār al-Maʿārif, 2021.

[43] Kāẓim Jihād, Dāntī Alīghiyīrī, al-Kūmīdiyā al-ilāhiyya, op.cit., p. 9.

[44] Kāẓim Jihād, Dāntī Alīghiyīrī, al-Kūmīdiyā al-ilāhiyya, op.cit., pp. 9-10.

[45] Kāẓim Jihād, Dāntī Alīghiyīrī, al-Kūmīdiyā al-ilāhiyya, op.cit., p. 9.

 

 
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